I cambiamenti climatici uccidono: centinaia di morti in Canada per il caldo, ma è solo l’inizio
Il 5 novembre del 2019 sulla rivista BioScience fu pubblicato uno degli studi più approfonditi e significativi sull'impatto dei cambiamenti climatici. Sottoscritto da ben 11mila scienziati (250 dei quali italiani) di 153 Paesi, il lavoro rappresentava una sorta di ultimo avviso, un allarme disperato dopo decenni di appelli rimasti inascoltati. “Noi scienziati abbiamo l'obbligo morale di avvertire chiaramente l'umanità di ogni grande minaccia esistenziale”, scrivevano i professori William J. Ripple, Christopher Wolf e gli altri autori della ricerca, giungendo alla conclusione che se non si sarebbe fatto nulla per limitare in modo rapido e incisivo l'aumento della temperatura globale, l'umanità sarebbe andata incontro a “sofferenze indicibili”. Il testo ha fatto il giro del mondo e i decisori politici si sono detti pronti ad agire, ma all'atto pratico cos'è cambiato dopo 2 anni? Nulla o quasi, considerando che a maggio del 2021, in base ai rilievi del Mauna Loa Atmospheric Baseline Observatory alle Isole Hawaii, l'anidride carbonica (CO2) ha raggiunto le 419,13 parti per milione (ppm) in atmosfera, la concentrazione più elevata mai registrata nel corso della storia. Questo composto è il principale dei gas a effetto serra, figlio delle emissioni delle attività umane e vero e proprio catalizzatore del riscaldamento globale.
La lieve flessione nelle emissioni registrata nel 2020 per via della pandemia di COVID-19, come sottolineato più volte dagli scienziati è stata solo un fuoco di paglia, che non ha fatto altro che innescare un effetto rimbalzo. Insomma, nonostante i buoni propositi, come le firme sugli accordi che puntano a raggiungere la neutralità carbonica/climatica entro il 2050, nulla al momento è effettivamente cambiato nell'emorragia di carbonio vomitato nell'atmosfera. Alla luce di queste premesse, dobbiamo davvero stupirci dei quasi 50° C raggiunti nella città canadese di Lytton? L'ondata di caldo estremo che sta investendo il Nord America occidentale, in grado di mettere in fila nuovi record delle temperature massime per più giorni consecutivi, sta ricevendo una significativa eco mediatica in tutto il mondo, tuttavia nella narrazione continuano a essere utilizzati termini come “anomalia”, “eccezionalità”. Eppure, proprio nel documento pubblicato su BioScience e in numerosissimi altri che l'hanno preceduto e seguito, le ondate di calore estremo rappresentano una delle tante conseguenze dei cambiamenti climatici, un'emergenza ben più grave della pandemia di COVID-19 che stiamo vivendo. Non è il singolo evento in sé a preoccupare gli esperti, ma la frequenza e l'intensità crescente degli stessi. Se un tempo ondate di calore di questo genere – causate da un fenomeno chiamato “cupola di calore” – erano estremamente rare, negli ultimi anni continuano a susseguirsi senza soluzione di continuità, portandosi dietro siccità, incendi devastanti e temperature impazzite. Tutti ricordiamo gli assurdi 38° C raggiunti lo scorso anno in Siberia nella città più fredda del mondo, gli incendi che hanno ucciso centinaia di milioni di animali in Australia o quelli che hanno distrutto una fetta significativa della Foresta Amazzonica, che in base a un nuovo studio ora emette più CO2 di quella che assorbe a causa nostra.
Perché nonostante i drammi prospettati da tempo dagli scienziati, anche quando si manifestano con forza come sta accadendo in Canada (dove sono morte centinaia di persone per il caldo), non reagiamo con la stessa solerzia come abbiamo fatto ad esempio contro la pandemia di COVID-19? Secondo il dottor Kamyar Razavi dell'Università Simon Fraser (Columbia Britannica, Canada) e collaboratore di Global News, un problema di fondo nella lotta ai cambiamenti climatici sta nella comunicazione. Al di là dello scarso trattamento sui media – nel 2019 hanno rappresentato lo 0,7 percento delle principali notizie negli USA e nel 2020 solo lo 0,4 percento -, anche il modo in cui vengono comunicate le notizie non riesce a "fare breccia" nelle nostre coscienze. Secondo il dottor Razavi, autore di un articolo pubblicato su The Conversation, nemmeno le immagini degli orsi polari morenti che rischiano di estinguersi a causa della scomparsa del loro habitat (lo scioglimento dei ghiacci è una delle conseguenze principali del riscaldamento globale) o i grafici precisi e puntuali che mostrano il progressivo aggravarsi della situazione spingono le persone ad agire. Lo studioso afferma che l'83 percento dei canadesi è convinto che il pianeta si stia riscaldando, ma meno della metà pensa che sarà direttamente colpito dalle conseguenze dei cambiamenti climatici.
Per coinvolgere le persone non è sufficiente spaventarle sbandierando l'apocalisse alle porte, ma i messaggi devono essere lanciati in sinergia con le soluzioni più efficaci, con le iniziative che ciascuno di noi può intraprendere per contenere la propria impronta carbonica, come ad esempio passare a una dieta principalmente vegetale. Tutti noi sappiamo che alla base dei cambiamenti climatici ci sono le emissioni legate ai combustibili fossili (petrolio, gas e carbone), ma dire che fanno male all'ambiente e che dobbiamo puntare alle energie rinnovabili non basta. Servono esempi virtuosi che spingano a modificare il nostro stile di vita. Lo scienziato fa un esempio significativo: in molti laghetti è indicato di non dar da mangiare agli uccelli acquatici, perché il cibo degli uomini è dannoso per essi, eppure in molti se ne disinteressano e continuano a farlo, noncuranti delle conseguenze. Un studio nel Regno Unito ha dimostrato che, all'interno dei parchi, i cartelli con su scritto “riportate a casa i vostri rifiuti, gli altri lo fanno” sono molto più efficaci di quelli che sottolineano di “non sporcare il parco abbandonando i rifiuti”. Mettere al centro l'esempio degli altri, raccontare storie come quelle di Greta Thunberg e di altre persone impegnate attivamente nella lotta al clima, spiega il dottor Razavi, è il modo migliore per smuovere le coscienze e spingere le comunità a seguire comportamenti più virtuosi. La leva della paura da sola non basta nemmeno navigando nella tempesta, come dimostrano i drammatici appelli lanciati nel vuoto negli ultimi decenni.