Perché si parla “solo” di 1,5° C nella lotta al riscaldamento globale
Durante la COP21, tenutasi nel dicembre del 2015 a Parigi, larga parte degli Stati membri della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) strinsero un accordo per contenere l'aumento della temperatura media del pianeta rispetto all'epoca preindustriale, con l'obiettivo di limitare l'impatto del riscaldamento globale. Il cosiddetto Accordo di Parigi prevedeva due traguardi distinti: uno meno virtuoso, che puntava a contenere l'aumento della temperatura entro i 2° C, e uno più significativo volto a limitare la febbre della Terra entro 1,5° C. Quest'ultimo è considerato il target ideale dagli scienziati, ma la realtà è che non esiste un cambiamento climatico “buono”. Già oggi, con una temperatura media più alta di circa 1,2° C rispetto all'epoca preindustriale, stiamo vivendo conseguenze catastrofiche: siccità, alluvioni, perdita di produttività e biodiversità, fenomeni atmosferici estremi, ondate di calore mortali e altri eventi sono molto più frequenti e intensi che in passato. Evitare un ulteriore aumento della temperatura media – contrastando le emissioni di gas a effetto serra – dunque non significa scongiurare le conseguenze del riscaldamento globale, bensì limitarne le conseguenze, che già stiamo subendo e continueranno a peggiore. In altri termini, più alta sarà la temperatura raggiunta rispetto all'epoca preindustriale e peggiori saranno le conseguenze per l'umanità, che rischia “indicibili sofferenze” e persino la scomparsa della civiltà come la conosciamo oggi. Ma perché si parla sempre di 1,5° C?
Come sottolineato, contenere l'aumento della temperatura media di 1,5° C rispetto all'epoca preindustriale è ciò che auspicano gli scienziati, non perché quel valore sia positivo, ma perché considerato il risultato migliore ancora (potenzialmente) raggiungibile. Ma ciò si verificherà solo e soltanto se vi saranno riduzioni drastiche e immediate nelle emissioni di anidride carbonica (CO2) e altri gas a effetto serra (come il metano) nell'atmosfera, che rappresentano il volano dei cambiamenti climatici. Se continueremo a inquinare con questi ritmi, gli scienziati stimano che l'obiettivo di 1,5° C sarà destinato a saltare già tra il 2030 e il 2052. A confermarlo sono stati i risultati del rapporto “Riscaldamento globale di 1,5 °C (SR 15)” presentato nell'ottobre del 2018 durante una riunione del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico o IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), tenutasi in Corea del Sud. Era evidente sin dall'Accordo di Parigi che il contenimento entro i 2° C non sarebbe stato sufficiente a proteggerci da conseguenze particolarmente devastanti, ma le indagini condotte in seguito hanno spazzato via ogni dubbio. Già con un aumento di 1,5° C, del resto, l'impatto sarà pesantissimo.
In base al rapporto dell'IPCC, un incremento di 1,5° C comporterà rischi significativi per “salute, mezzi di sussistenza, sicurezza alimentare, approvvigionamento idrico, sicurezza umana e crescita economica”. Ci saranno crolli nei raccolti e nella qualità di ciò che mangiamo, si ridurranno le riserve d'acqua e ci sarà una maggiore circolazione di malattie infettive come malaria e dengue. Con temperature più elevate, del resto, i vettori che le trasmettono – come le zanzare tropicali – potranno adattarsi in aree geografiche prima inospitali. Un editoriale recentemente pubblicato su oltre 230 riviste scientifiche ha evidenziato che con un riscaldamento di 1,5° C ci saranno conseguenze catastrofiche e irreversibili sulla salute. Aumenteranno disidratazione, gravidanze complicate, allergie, perdita della funzionalità renale, tumori maligni della pelle, peggioramento della salute mentale, morbilità e mortalità per condizioni cardiovascolari e polmonari. È un incubo che ci attende anche se saremo molto bravi a contrastare immediatamente le emissioni di CO2. Ma non lo saremo così bravi, come dimostrano le decisioni di India, Cina e Russia che intendono raggiungere la neutralità climatica entro il 2060/2070. Secondo gli esperti dell'IPCC, infatti, per contenere l'aumento entro 1,5° C dovremmo abbattere le emissioni del 45 percento entro il 2030 e raggiungere la neutralità climatica entro il2050. È un traguardo estremamente complicato da raggiungere, considerando che le emissioni di CO2 continuano ad aumentare così come lo sfruttamento di combustibili fossili, nonostante i proclami dei potenti (che si sono recati alla COP26 con 400 aerei privati).
Arrivare a una temperatura media più calda di 2° C rispetto all'epoca preindustriale comporterebbe un prezzo salatissimo, molto peggiore di 1,5° C. In base a questo grafico del World Resources Institute, con 0,5° in più rispetto le ondate di caldo estremo diventeranno 2,6 volte peggiori; la perdita di piante e animali vertebrati sarà 2 volte peggiore; la perdita di insetti sarà 3 volte peggiore; il livello del mare sarà 6 decimetri più elevato (da 0,40 a 0,46 metri); le estati artiche senza ghiaccio saranno 10 volte peggiori; il declino della pesca sarà due volte peggiore; il 99 percento delle barriere coralline sparirà (invece del 70-90 percento); ci sarà un aumento significativo di aree inospitali della Terra e conseguenti di migrazioni di massa senza precedenti. Ecco perché dobbiamo puntare a contenere l'aumento delle temperature a 1,5° C e non andare oltre.
Si stima che se non faremo nulla, entro il 2100 la temperatura potrebbe aumentare di ben 3° C, con effetti ancora più catastrofici di quelli sopra elencati. Il grafico seguente pubblicato dal Copernicus Climate Change Service (C3S*) mostra il progressivo aumento della temperatura a partire dagli anni '70 del secolo scorso fino ad oggi, un'impennata continua che se non arresteremo con decisioni drastiche e repentine sulle emissioni di CO2 e altri gas a effetto serra ci farà sprofondare nel baratro senza alcuna via d'uscita.
Va infine tenuto presente che 1,5° C è un valore medio per la temperatura della Terra; ci sono aree in cui il riscaldamento globale ha un impatto molto più significativo e dove la soglia limite è stata superata da tempo. Ad esempio nell'Artico, dove rischiano di sparire orsi polari, pinguini, foche e interi ecosistemi a causa dello scioglimento del ghiaccio, la velocità del riscaldamento è praticamente doppia. Bastano infatti leggerissime fluttuazioni nelle temperature medie per avere impatti drammatici sugli equilibri dei sistemi atmosferici. Come evidenziato dalla NASA, “più di un quinto di tutti gli esseri umani vive in regioni che hanno già visto un riscaldamento superiore a 1,5 gradi Celsius in almeno una stagione”. Le conseguenze sono siccità, alluvioni e perdita di raccolti senza precedenti. Le persone più esposte alle conseguenze dei cambiamenti climatici attualmente sono quelle che vivono alle basse latitudini e nelle comunità svantaggiate, vittime di una vera e propria ingiustizia climatica, dato che la stragrande maggioranza delle emissioni di anidride carbonica deriva proprio dai Paesi ricchi e sviluppati, che hanno raggiunto il proprio benessere proprio sulle spalle di quelli poveri. Non è un caso che tra le richieste degli attivisti ambientalisti come Greta Thunberg non vi sia solo il contenimento della temperatura entro 1,5° C, ma anche la giustizia climatica, con risarcimenti e cancellazioni del debito per i Paesi in sviluppo che stanno già pagando un prezzo salatissimo.