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Covid 19

Le cinque questioni irrisolte sul coronavirus secondo Nature

La prestigiosa rivista scientifica Nature ha pubblicato un elenco con cinque domande cruciali ancora senza risposta sul coronavirus SARS-CoV-2. Mutazioni, vaccini, origine, immunità e trasversalità della COVID-19 (l’infezione provocata dal patogeno) presentano ancora oggi profili di grande incertezza, con tutto ciò che ne consegue nella lotta alla pandemia.
A cura di Andrea Centini
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Il coronavirus visto al microscopio elettronico. Credit: NIAID
Il coronavirus visto al microscopio elettronico. Credit: NIAID
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Alla data odierna, martedì 7 luglio, sulla base della mappa interattiva messa a punto dai ricercatori dell'Università Johns Hopkins il coronavirus SARS-CoV-2 ha contagiato nel mondo oltre 11,6 milioni di persone e ne ha uccise poco meno di 540mila (in Italia infettati e vittime sono rispettivamente 241.819 e 34.869). I numeri sono in costante crescita e in alcuni Paesi non è stato raggiunto nemmeno il picco dei casi, pertanto l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha recentemente annunciato che il peggio della pandemia “deve ancora arrivare”. A rendere la situazione ancora più complicata il fatto che, a circa 7 mesi di distanza dall'emersione dei primi casi di “misteriosa polmonite” a Wuhan, in Cina, gli scienziati non hanno ancora compreso a fondo il patogeno, che avrebbe compiuto il salto di specie nella seconda metà di novembre 2019. Ci sono ancora diverse domande alle quali i ricercatori debbono rispondere, e la prestigiosa rivista scientifica Nature ha deciso di realizzare un elenco con le cinque più significative. Eccole qui di seguito.

Perché le persone rispondono in modo così diverso al virus

Com'è ampiamente noto da studi clinici ed epidemiologici, le vittime “privilegiate” del SARS-CoV-2 (responsabile della malattia chiamata COVID-19) sono i maschi anziani con comorbilità, ovvero malattie pregresse alla stregua di cardiopatie e diabete. Non mancano tuttavia casi di giovani in perfetta salute che hanno sperimentato sintomi estremamente gravi, che in alcuni casi hanno anche perso la vita. Gli scienziati non conoscono il motivo di tale diversità, e stanno conducendo studi approfonditi (soprattutto a livello genetico) per provare a comprendere questa diversità. Fra gli istituti in prima linea vi è l'Università Rockfeller di New York, che sta andando a caccia delle mutazioni più significative grazie a un enorme database genomico. Recentemente un team di ricerca internazionale guidato da scienziati dell'Istituto di Biologia Clinica Molecolare presso l'Università Christian-Albrechts ha scoperto che il gruppo sanguigno A determina una maggiore probabilità di sperimentare sintomi più gravi, così come il possedere un segmento di DNA sul coromosoma 3 che abbiamo ereditato dai Neanderthal (e che è ben presente nella comunità bengalese, che in Gran Bretagna ha un tasso di mortalità più elevato rispetto agli autoctoni).

Quanto dura l'immunità dopo il contagio

Ad oggi non è ancora noto quanto tempo duri la potenziale immunità dopo essere stati contagiati dal SARS-CoV-2. I livelli di anticorpi neutralizzanti, che si sviluppano durante l'infezione, risultano più alti nei pazienti che sperimentano una malattia più seria rispetto a chi ha sintomi lievi o è asintomatico, ma tendono a ridursi col passare del tempo. Un recente studio condotto da scienziati dell'Istituto di Scienze Animali, dell'Accademia cinese di Scienze Mediche e del Centro di medicina comparata presso il Peking Union Medical College di Pechino ha dimostrato che macachi rhesus (Macaca mulatta) infettati col virus e poi guariti non si reinfettano ad alcune settimane di distanza. Non è noto se ciò valga anche per l'uomo.

Il coronavirus ha sviluppato mutazioni preoccupanti?

Poiché la maggior parte dei vaccini candidati in sviluppo contro il coronavirus SARS-CoV-2 si basano sul colpire la proteina S del patogeno, quella che si lega al recettore ACE2 delle cellule umane permettendo l'invasione, la replicazione e dunque l'infezione, qualora essa dovesse mutare le preparazioni allo studio potrebbero risultare inefficaci. Inoltre queste mutazioni potrebbero rendere il patogeno più aggressivo. A preoccupare gli scienziati c'è soprattutto la mutazione che ha determinato l'origine del ceppo D614G, quello attualmente dominante, che in una recente ricerca coordinata da scienziati del Laboratorio di Los Alamos è risultato più adattato a infettare le cellule umane della variante originale, ma non è stata trovata una correlazione con una aumentata trasmissibilità dell'infezione o con sintomi più gravi.

Il vaccino anti coronavirus

Secondo il documento “Draft landscape of COVID-19 candidate vaccines” dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), aggiornato alla data del 6 luglio, momento ci sono circa 150 vaccini in sviluppo contro il coronavirus SARS-CoV-2, 19 dei quali in sperimentazione clinica (cioè sull'uomo) e 130 in pre-clinica (su cellule in coltura e modelli animali). Fra essi la preparazione più avanzata, per la quale potrebbero arrivare milioni di dosi nel mese di ottobre, è il vaccino ChAdOx1 sviluppato dall'Università di Oxford in collaborazione con l'azienda italiana Advent-Irbm di Pomezia (provincia di Roma). Test sulle scimmie con questi vaccini sperimentali hanno dimostrato che “potrebbero prevenire l'infezione polmonare e la conseguente polmonite, ma non bloccare l'infezione in altre parti del corpo, come nel naso”, scrive Nature. Ciò significa che potrebbero prevenire la malattia o renderla più lieve, ma non evitare che si diffonda. Il vaccino di Oxford testato sulle scimmie ha ad esempio mostrato che i livelli di virus nel naso erano paragonabili a quelli riscontrati nelle scimmie non trattate. Sull'uomo i vaccini candidati determinano la comparsa di anticorpi neutralizzanti, ma non è chiaro se sufficienti a ostacolare la comparsa della malattia e per quanto tempo duri la protezione.

L'origine del virus

Si ritiene che il coronavirus circolasse in origine in un pipistrello asiatico del genere Rhinolophus, nel quale sono stati trovati due patogeni con un profilo genetico sovrapponibile al 96 percento. Dal pipistrello il coronavirus sarebbe passato a un ospite intermedio, che si pensa possa essere il pangolinoil mammifero più trafficato del pianeta -, nel quale sono stati trovati patogeni somiglianti soprattutto a livello della proteina S. Il SARS-CoV-2 sarebbe dunque passato all'uomo (salto di specie o spillover) in un mercato umido, nel quale probabilmente venivano macellati i pangolini. Sono tutte supposizioni, dato che al momento manca la “pistola fumante”, mentre alcuni credono ancora che il coronavirus sia stato fabbricato in laboratorio, anche se numerosi studi scientifici lo hanno smentito categoricamente.

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