Le bufale e i farmaci inutili promossi al convegno della Lega sulle cure domiciliari anti Covid
Presso la Sala Capitolare di Palazzo Madama, dove ha sede il Senato, si è tenuto l'“International Covid Summit – esperienze di cura dal mondo”, un controverso meeting promosso dalla Lega (hanno partecipato i senatori leghisti Roberta Ferrero e Alberto Bagnai) durante il quale si sono alternati sul palco medici, presunti esperti e altre figure dalle aperte posizioni antivacciniste, no mask e affini. Come suggerisce l'altisonante nome nel convegno si è parlato di cura e non di prevenzione, pertanto non si è discusso direttamente dei vaccini, ciò nonostante è stata cavalcata la narrazione delle cure domiciliari tanto cara ai no vax, chiamando in causa farmaci e terapie che non solo sono stati considerati inefficaci dalla comunità scientifica internazionale, ma in alcuni casi persino dannosi per la salute. Contro la COVID-19, l'infezione provocata dal coronavirus SARS-CoV-2, durante il meeting si è dato risalto a ivermectina, idrossiclorochina e anche al plasma iperimmune, ma non sono mancati riferimenti alla vitamina D, alla curcuma e ad altri rimedi naturali non sostenuti da alcuna evidenza scientifica. Il meeting, oltre che da alcune forze politiche, è stato aspramente criticato da scienziati e virologi come Roberto Burioni, che in un cinguettio su Twitter ha lanciato un vero e proprio j'accuse. “Mentre ci troviamo un grave pericolo sanitario, sociale ed economico il Senato ospita un convegno dove vengono raccontate pericolosissime bugie e promosso l'utilizzo di farmaci che non solo sono inefficaci, ma anche molto dannosi. Qualcuno deve risponderne”, ha chiosato il virologo e divulgatore scientifico dell'Università San Raffaele di Milano. Ecco perché i farmaci citati nel convegno non sono considerati efficaci contro l'infezione da coronavirus SARS-CoV-2.
Ivermectina
Tra i farmaci più citati nella campagna di disinformazione dei no vax vi è l'ivermectina, un antiparassitario e antielmintico con proprietà antivirali che viene utilizzato principalmente in ambito veterinario. All'inizio della pandemia, quando non si sapeva come combattere la COVID-19, medici e scienziati hanno provato a testare principi attivi che avevano già a disposizione, nella speranza fossero efficaci. Alcuni studi condotti in laboratorio come “The FDA-approved Drug Ivermectin inhibits the replication of SARS-CoV-2 in vitro” pubblicato su Antiviral Research da ricercatori dell'Università Monash dimostrarono che l'ivermectina era in grado di neutralizzare il coronavirus SARS-CoV-2 in provetta nel giro di sole 48 ore. Queste indagini spinsero a organizzare i primi trial clinici (test sull'uomo), che tuttavia non hanno portato agli effetti sperati. Nello studio “Effect of Ivermectin on Time to Resolution of Symptoms Among Adults With Mild COVID-19 – A Randomized Clinical Trial” pubblicato sulla rivista Jama, ad esempio, è stato dimostrato che l'antiparassitario non riduce la durata dei sintomi dell'infezione. In pratica, è inefficace. Anche lo studio “Ivermectin for the treatment of COVID-19: A systematic review and meta-analysis of randomized controlled trials” ha concluso che l'ivermectina non riduce la mortalità, la durata del ricovero in ospedale e la clearance virale nei pazienti contagiati. Alla luce di questi e altri risultati, l'Agenzia Europea per i Medicinali (EMA), la Food and Drug Administration (FDA) e le altre agenzie sanitarie internazionali hanno deciso di non raccomandare questo farmaco per i pazienti con COVID-19. Ciò nonostante gli antivaccinisti hanno continuato a sostenere che l'efficacia del farmaco è stata "tenuta nascosta" perché a basso costo; in pratica, non avrebbe fatto guadagnare abbastanza le case farmaceutiche come il vaccino. In tanti hanno così deciso di auto-somministrarsi l'ivermectina in dosi da cavallo, sia per prevenire che per “curare” la COVID-19, finendo inevitabilmente all'ospedale con un avvelenamento. Negli Stati Uniti, come affermato alla ABCNews dalla dottoressa Julie Weber, che presiede l'Associazione americana dei centri antiveleni e direttrice del Missouri Poison Center, le chiamate di soccorso per intossicazione da ivermectina durante la pandemia sono aumentate di diverse decine ogni giorno. Se ciò non bastasse, recentemente una delle ricerche che aveva “dimostrato” l'efficacia dell'ivermectina sulle persone è stata ritirata perché piena di errori e dati appositamente manipolati dagli autori. Questo farmaco non va comunque demonizzato; è infatti estremamente efficace in veterinaria e per combattere alcune malattie parassitarie come oncocercosi e filariosi linfatica (tant'è che gli scopritori del principio attivo sono stati insigniti del Premio Nobel), tuttavia non è efficace contro la COVID-19 e nessuna autorità sanitaria lo raccomanda.
Idrossiclorochina
L'antimalarico idrossiclorochina è stato probabilmente il farmaco più discusso durante la pandemia di COVID-19. Inizialmente è stato considerato alla stregua di un vero e proprio salvavita, in particolar modo dopo alcuni studi condotti in Francia, ma alla fine è “crollato” sotto al peso dei risultati di numerose ricerche scientifiche che ne hanno dimostrato l'inefficacia come farmaco anti Covid. Senza dimenticare la pletora di effetti collaterali (dal rischio suicidio ai problemi cardiaci) emersi dalle molteplici indagini, condotte soprattutto durante la prima fase della pandemia. Nel documento “A living WHO guideline on drugs to prevent covid-19” pubblicato sull'autorevole rivista scientifica The British Medical Journal, l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) sottolinea che il farmaco non va usato per prevenire la malattia poiché nei trial clinici "con elevata certezza" l'idrossiclorochina "non ha avuto alcun effetto significativo sulla morte e il ricovero in ospedale". Nei pazienti Covid c'è inoltre "moderata certezza" che il farmaco "non ha avuto alcun effetto significativo sull’infezione da SARS-Cov-2 confermata in laboratorio". Nello studio “Hydroxychloroquine as pre-exposure prophylaxis for COVID-19 in healthcare workers: a randomized trial” pubblicato sulla rivista scientifica Clinical Infectious Disiases è stato dimostrato che l'idrossiclorochina non previene la COVID-19 negli operatori sanitari, una categoria particolarmente esposta al rischio di contagio. Nello studio “Randomised Evaluation of COVid-19 thERapY (RECOVERY) Trial on hydroxychloroquine” l'idrossiclorochina è stata somministrata a più di 1500 pazienti gravi ricoverati con COVID-19, e i loro esiti clinici sono stati messi a confronto con quelli di un altro gruppo non trattato con l'antimalarico. Entro un mese dalla somministrazione è deceduto il 25,7 percento dei pazienti del gruppo idrossiclorochina e il 23,5 percento del gruppo non trattato col farmaco. Ciò dimostra la totale inefficacia nel prevenire la mortalità. Nello studio “Treatment of COVID-19 Cases and Chemoprophylaxis of Contacts as Prevention (HCQ4COV19)” condotto in Spagna, invece, non è stata evidenziata alcuna differenza nel decorso della COVID-19 in migliaia di pazienti trattati con o senza il farmaco. Insomma, non vi è alcuna evidenza scientifica sull'efficacia del farmaco contro l'infezione da coronavirus SARS-CoV-2, e per questo non viene raccomandato per trattare i pazienti, né per la prevenzione della malattia.
Il plasma iperimmune
Il plasma iperimmune (cioè ricco di anticorpi neutralizzanti) ottenuto da pazienti convalescenti/guariti dalla COVID-19 è stato considerato a lungo un'altra arma preziosa per combattere la pandemia, ciò nonostante anche in questo caso l'evidenza scientifica ha decretato l'esatto contrario. Ad affondare definitivamente l'utilizzo di questo metodo è stato il recente e approfondito studio “Early Convalescent Plasma for High-Risk Outpatients with Covid-19” pubblicato sulla rivista scientifica The New England Journal of Medicine (NeMJ), tra le più autorevoli in assoluto a livello mondiale in campo sanitario. Gli scienziati del National Heart, Lung, and Blood Institute di Bethesda e dell'Università di Pittsburgh, mettendo a confronto gli esiti clinici di pazienti positivi al tampone rinofaringeo trattati o non trattati col plasma, hanno determinato che il plasma iperimmune non riduce il rischio di progressione verso la COVID-19 grave, anche se viene somministrato entro la prima settimana dalla comparsa dei sintomi. Fra le centinaia di pazienti coinvolti nello studio, l'aggravamento si è verificato nel 30 percento dei pazienti cui è stato somministrato il plasma e nel 31,9 percento del gruppo placebo, una differenza statisticamente irrilevante. Recentemente i National Institutes of Health (NIH) americani hanno interrotto uno studio basato sulla sperimentazione del plasma iperimmune, proprio per la mancanza di benefici evidenziata dai dati. Anche lo studio italiano TSUNAMI condotto in collaborazione tra Istituto Superiore della Sanità (ISS) e Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) ha dimostrato che il plasma iperimmune non riduce il rischio di aggravamento respiratorio e morte nei pazienti Covid con polmonite e compromissione ventilatoria (da lieve a moderata). Tutte queste indagini, dunque, confermano la ragione per cui i farmaci e le terapie presentati all'International Covid Summit tenutosi al Senato non sono considerati efficaci e non vengono raccomandati contro la COVID-19.