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Covid 19

Il plasma dei guariti è inefficace: non evita la Covid grave nei pazienti trattati ai primi sintomi

Mettendo a confronto gli esiti clinici di pazienti contagiati dal coronavirus SARS-CoV-2, un team di ricerca americano guidato da scienziati dell’Università di Pittsburgh ha determinato che il plasma iperimmune dei guariti/convalescenti non riduce il rischio di progressione verso la COVID-19 grave, anche se somministrato precocemente, entro la prima settimana dalla comparsa dei sintomi.
A cura di Andrea Centini
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Quasi due anni fa il coronavirus SARS-CoV-2 ha iniziato a diffondersi nel mondo innescando lo scoppio della pandemia di COVID-19, una nuova malattia che, soprattutto nelle fasi iniziali, è stata combattuta con una serie di farmaci e terapie senza sapere esattamente quale potesse esserne la reale efficacia. Uno dei trattamenti più discussi in assoluto è stato quello del plasma iperimmune dei guariti/convalescenti, ovvero l'infusione di anticorpi neutralizzanti (ottenuti dai pazienti) per combattere un'infezione incipiente e provare a impedirne l'evoluzione nella forma grave e potenzialmente fatale della patologia. Tale approccio è sfruttato in medicina da decenni e l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) lo approva nei casi in cui non sono disponibili medicinali specifici contro una nuova malattie infettiva, esattamente come avvenuto per la COVID-19. Sebbene le premesse fossero molto promettenti, il plasma iperimmune si è rilevato una strategia poco efficace nel migliorare il decorso clinico dei pazienti, tanto da spingere esperti e autorità sanitarie a non raccomandarlo più. Ora un nuovo approfondito studio conferma che il plasma iperimmune non è in grado di prevenire la progressione verso la forma grave della COVID-19, quando somministrato a pazienti a rischio nella prima settimana dalla comparsa dei sintomi.

A condurre l'indagine è stato un team di ricerca americano guidato da scienziati del National Heart, Lung, and Blood Institute di Bethesda e dell'Università di Pittsburgh, che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi dell'Università del Michigan, della Medical University della Carolina del Sud, del Vitalant Research Institute, del Centro Medico dell'Università della California di Los Angeles (UCLA), dell'Università di Chicago e di altri istituti. Gli scienziati, coordinati dal professor Clifton Callaway, docente di medicina d'urgenza presso l'ateneo di Pittsburgh e a capo del progetto “C3PO” per la somministrazione del plasma nei pazienti Covid, sono giunti alle loro conclusioni dopo aver condotto uno studio clinico randomizzato, multicentrico e in singolo cieco. Sono stati coinvolti oltre 500 partecipanti, provenienti da una cinquantina di dipartimenti di emergenza degli Stati Uniti. Tutti i pazienti inclusi nello studio, con un'età media di 54 anni, si erano presentati al pronto soccorso entro una settimana dall'insorgenza dei sintomi ed erano in condizioni stabili, idonee alla gestione in ambulatorio. Avevano almeno un fattore di rischio noto per l'evoluzione dell'infezione nella forma grave, come obesità, ipertensione, diabete, condizioni cardiovascolari, malattie polmonari e simili, per questo sono stati considerati idonei per la somministrazione del plasma iperimmune in seno allo studio C3PO.

I ricercatori li hanno divisi in due gruppi: il primo ha ricevuto il plasma dei convalescenti COVID-19 ad alto titolo, ovvero ricco di anticorpi neutralizzanti; il secondo un placebo, una soluzione salina con multivitaminici e senza anticorpi. Entrambi i gruppi sono stati trattati entro una settimana dalla comparsa dei sintomi e, come indicato, tutti i pazienti erano in condizioni stabili. Il professor Callaway e i colleghi hanno messo a confronto l'evoluzione clinica in entrambi i gruppi a 15 giorni dal trattamento, osservando che coloro che avevano ricevuto il plasma iperimmune non hanno avuto alcun beneficio nell'evitare un peggioramento delle condizioni di salute. Fra tutti i 511 partecipanti, la progressione della malattia si è verificata nel 30 percento dei pazienti (77) del gruppo plasma e nel 31,9 percento (81 pazienti) del gruppo placebo. Una differenza soltanto dell'1,9 percento, che non ha rilevanza statistica. “Speravamo che l'uso del plasma convalescente COVID-19 avrebbe raggiunto almeno una riduzione del 10 percento nella progressione della malattia in questo gruppo, ma invece la riduzione che abbiamo osservato è stata inferiore al 2 percento”, ha dichiarato il professor Callaway in un comunicato stampa. “Questo è stato sorprendente per noi. Come medici, volevamo che questo facesse una grande differenza nella riduzione delle malattie gravi ma così non è stato”, ha aggiunto l'esperto.

Attualmente sono in corso negli Stati Uniti (e non solo) altre indagini basate sul plasma iperimmune, ad esempio per verificare se questo approccio possa aiutare i pazienti a recuperare più velocemente dalla malattia. Ma il fatto che la terapia non è in grado di prevenire la progressione verso la COVID grave nei pazienti a rischio, anche se somministrato in fase precoce, ne limita sensibilmente l'impatto nella gestione della pandemia. I dettagli della ricerca “Early Convalescent Plasma for High-Risk Outpatients with Covid-19” sono stati pubblicati sull'autorevole rivista scientifica The New England Journal of Medicine (NeMJ).

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