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Covid 19

Perché il coronavirus è più letale in Occidente che in Asia: le teorie degli scienziati

La diffusione e la letalità del coronavirus SARS-CoV-2 risultano sensibilmente superiori nei Paesi occidentali che in quelli asiatici, ma non è ancora ben compresa la ragione di queste differenze. Tra i fattori considerati dagli scienziati figurano ceppi virali, genetica umana, condizioni ambientali, età media della popolazione, obesità e altro ancora. Ecco tutto ciò che sappiamo.
A cura di Andrea Centini
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Nel momento in cui stiamo scrivendo, sulla base della mappa interattiva messa a punto dagli scienziati dell'Università Johns Hopkins, il coronavirus SARS-CoV-2 ha contagiato nel mondo oltre 5,8 milioni di persone, uccidendone poco più di 360mila (in Italia alla data del 29 maggio si registrano 231mila infezioni e 33.142 vittime). Analizzando i dati delle singole aree della mappa, appare evidente come il patogeno emerso in Cina ha colpito molto più duramente i Paesi occidentali che quelli orientali. È sufficiente ricordare alcuni esempi: oltre al già citato dato italiano, negli Stati Uniti si registrano 1,7 milioni di contagi e oltre centomila morti; in Gran Bretagna 270mila contagi e 38mila morti; in Spagna 238mila infezioni e 27mila morti. Per quanto concerne l'Asia, in Cina, dove il patogeno è emerso, si contano 84mila contagi e 4.600 morti; in Corea del Sud 11.400 contagi e 269 morti; in Giappone 16.600 contagi 881 vittime. Innanzi a questi dati, sembra che la pandemia sia provocata da due patogeni differenti, uno aggressivo e letale che ha colpito l'Occidente, e uno meno “cattivo” che si è diffuso in Oriente.

Ma il SARS-CoV-2, benché siano noti vari ceppi con possibili differenti gradi di patogenicità, è un virus unico, che dalla metropoli cinese di Wuhan – dove ha iniziato a serpeggiare alla fine dello scorso anno – si è diffuso rapidamente nel resto del mondo, a partire proprio dall'Italia, scatenando una catastrofe sanitaria, sociale ed economica senza precedenti, paragonabile all'impatto di una guerra combattuta sul suolo nazionale. Alla luce di questa significativa disparità regionale, gli scienziati si stanno interrogando da mesi sui fattori che possono averla determinata. Molto probabilmente si tratta di una combinazione di essi, che potrebbe anche aiutarci a comprendere come rallentare la diffusione del virus.

Come primo spunto vi è l'esperienza maturata dai popoli orientali nell'affrontare epidemie pericolose, come quelle recenti della SARS e della MERS, che hanno determinato una risposta pronta sia dei cittadini che delle autorità, sanitarie e amministrative. Lockdown tempestivi, tracciamento e isolamento dei contatti dei positivi, tamponi rino-faringei a tappeto e altre misure hanno permesso di circoscrivere i focolai e impedire che il virus si propagasse come ha fatto in Europa e negli USA. Va inoltre ricordato che in Cina, Giappone e altri Paesi asiatici l'uso della mascherina fa parte della cultura, anche per evitare di contagiare gli altri con un semplice raffreddore, o magari per filtrare lo smog; pertanto in molti erano già protetti da questa barriera fisica e hanno e hanno evitato il contagio e soprattutto di diffondere il virus. In Occidente invece non eravamo così pronti, e abbiamo sottovalutato il rischio. Quando è emerso il famoso “paziente uno” di Codogno, verso la fine di febbraio, il virus circolava già da settimane in Italia, con le drammatiche conseguenze che si sono palesate nelle settimane successive. Ciò, naturalmente, non ha riguardato solo il Bel Paese, ma numerosi altri Paesi occidentali, che non avevano mai avuto a che fare con un problema sanitario di questa portata.

Come dichiarato al Washington Post dal professor Jeffrey Shaman, epidemiologo della prestigiosa Università Columbia, “siamo tutti di fronte allo stesso patogeno con lo stesso sistema immunitario, tuttavia esistono differenze nei test, nei report e nel controllo fra un Paese e l'altro. E ci sono differenze nei tassi di ipertensione, di malattie polmonari croniche, e di altre patologie, fra un Paese e l'altro”. In Italia, dove la popolazione ha un'età media molto elevata, malattie associate alle complicazioni e alla mortalità della COVID-19 come il diabete e i problemi cardiovascolari sono indubbiamente più diffuse che in Africa, dove la popolazione è in media molto più giovane, e dove il virus sta colpendo con molta meno virulenza. Ma anche in Giappone ci sono molti anziani, eppure nella terra del Sol Levante il coronavirus è stato decisamente più clemente. Gli scienziati ritengono che l'abitudine di indossare le mascherine ed evitare le strette di mano, oltre che l'eccellente assistenza sanitaria, possano aver contribuito ad abbattere i contagi. Per contro, in Italia, dove siamo abituati a dimostrazioni di affetto come baci e abbracci molto più che altrove, potremmo aver contribuito alla diffusione del virus col nostro amore, secondo alcuni scienziati.

Un altro fattore legato alla salute che differenzia nettamente Oriente e Occidente è il tasso di obesità. Se in Giappone è obeso il 4 percento della popolazione e in Corea del Sud lo è poco meno del 5 percento, in Europa si passa a oltre il 20 percento, mentre negli Stati Uniti si arriva al 36 percento, in base alle stime dell'Organizzazione Mondiale della Sanità. Anche l'obesità può aggravare la COVID-19, come evidenziato da un recente studio della Scuola di Medicina dell’Università Johns Hopkins, pertanto non si può escludere che anche questo fattore possa in qualche modo aver contribuito all'aggressività del patogeno.

Per quanto concerne il clima, diversi studi hanno rilevato che il coronavirus SARS-CoV-2 predilige un clima freddo e secco, con una temperatura di “stabilità” ideale attorno ai 4° centigradi. Non a caso in Paesi caldi e umidi come Cambogia, Vietnam e Singapore sono stati riscontrati pochissimi casi. Eppure, anche sotto questo profilo ci sono delle eccezioni importanti da non sottovalutare, come il Brasile e l'Ecuador, due Paesi equatoriali colpiti in modo durissimo. In Brasile, ad esempio, si contano quasi 44mila contagiati (il secondo Paese al mondo dopo gli USA) e circa 27mila morti. Il caldo aiuta a far evaporare prima le goccioline contaminate dal virus, mentre il tempo superiore trascorso all'aria aperta riduce il rischio di entrare in contatto con una carica virale sufficiente a scatenare l'infezione, ma ciò non basta ad arrestare il patogeno, come dimostra il caso brasiliano.

Sotto il profilo genetico, alcune indagini sostengono che in Europa e negli USA stia circolando un ceppo più aggressivo e letale di quello presente in Asia all'inizio della pandemia, ma è ancora tutto da confermare, dato che il patogeno sembra mutare molto lentamente e queste differenze non sono ancora del tutto chiare. Secondo quanto affermato dal premio Nobel giapponese Tasuku Honjo, un esperto di immunologia, tra asiatici ed europei c'è una grande differenza nell'aplotipo dell'antigene leucocitario umano (HLA), il sistema di geni che regola la risposta del sistema immunitario, anche in presenza di virus. Questa differenza potrebbe aver determinato un impatto diverso della patologia nelle varie regioni. Anche la potenziale immunità crociata prodotta da altri coronavirus (SARS-CoV e MERS-CoV sono affini al SARS-CoV-2) potrebbe aver giocato un ruolo, dato che le popolazioni asiatiche sono state già esposte a questi patogeni in passato. Infine, la ricerca “Correlation between universal BCG vaccination policy and reduced morbidity and mortality for COVID-19: an epidemiological study” sostiene che il vaccino contro la tubercolosi possa innescare una sorta di protezione contro il coronavirus, e non a caso è stato avviato uno studio in Australia che coinvolge 4mila operatori sanitari. Anche in questo caso il vaccino BCG è molto diffuso in Asia, tuttavia in Giappone e Francia si registra la stessa diffusione, ma l'impatto della malattia è stato molto diverso fra i due Paesi. In definitiva, non è ancora chiaro da cosa sia determinata questa notevole differenza tra Oriente e Occidente, e gli scienziati lavoreranno ancora a lungo per dare una risposta esasutiva.

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