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Covid 19

Oltre 8 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica prodotti dall’inizio della pandemia di Covid

Durante la pandemia di COVID-19 sono stati prodotti oltre 8 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica, decine di migliaia delle quali sono finite in mare.
A cura di Andrea Centini
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Sin dall'inizio della pandemia di COVID-19 è apparso evidente che si sarebbe scatenato un enorme problema di accumulo di rifiuti plastici, legato all'utilizzo dei dispositivi di protezione individuale (spesso monouso) per proteggersi dal coronavirus SARS-CoV-2. Mascherine, guanti, visiere, confezioni di gel idroalcolici e altri prodotti sanitari – come i kit dei tamponi – fanno ormai parte della vita quotidiana di miliardi di persone, andando ad aggiungersi all'immensa mole di plastica che ogni anno produciamo e che in parte finisce nell'ambiente. Nel 2015 è stato stimato che circa 8 milioni di tonnellate di plastica finiscono ogni anno nei mari e negli oceani di tutto il mondo, ma il più recente studio “Predicted growth in plastic waste exceeds efforts to mitigate plastic pollution” pubblicato su Science rileva che tale cifra sarebbe un un'ampia sottostima; si arriverebbe infatti fino a 34 milioni di tonnellate di plastica all'anno riversate negli ecosistemi marini, pari all'11 percento dei rifiuti prodotti. A rendere ancor più drammatico questo dato, il surplus che deriva proprio dalla spazzatura legata alla pandemia: una nuova ricerca ha determinato che dall'inizio della pandemia ad agosto del 2021 sono stati prodotti 8,4 milioni di tonnellate di rifiuti plastici tra DPI e simili, che arriveranno a 11 milioni di tonnellate entro la fine del 2021. Ben 34mila di queste tonnellate finiranno in acqua.

A fare questo calcolo è stato un team di ricerca internazionale composto da scienziati cinesi della Scuola di Scienze Atmosferiche dell'Università di Nanchino e dell'autorevole Scripps Institution of Oceanography dell'Università della California San Diego di La Jolla (Stati Uniti). I ricercatori coordinati da Yiming Peng e Peipei Wu sono giunti alle loro conclusioni grazie a un modello matematico chiamato Nanjing University MITgcm-plastic model (NJU-MP), sviluppato in collaborazione con gli scienziati del Massachusetss Institute of Technology (MIT). Questo modello è in grado di simulare con grande precisione le dinamiche delle correnti oceaniche e degli impatti atmosferici sulla plastica che galleggia, stimando anche il destino dei rifiuti. “Il modello simula come l'acqua di mare si muove spinta dal vento e come la plastica galleggia sulla superficie dell'oceano, si degrada alla luce sole, viene sporcata dal plancton, portata sulle spiagge e come sprofonda negli abissi”, ha dichiarato in un comunicato stampa il professor Yanxu Zhang, coautore dello studio e docente presso la Scuola di Scienze Atmosferiche dell'ateneo cinese.

In base ai calcoli, nel giro di tre o quattro anni larga parte delle decine di migliaia di tonnellate di rifiuti legati alla pandemia finiti in acqua si depositerà sulle spiagge o sui fondali marini, già ampiamente inquinati, mentre una parte più piccola vagherà liberamente nell'oceano, finendo magari in una delle grandi isole di spazzatura nel cuore del grande blu. I ricercatori ritengono tuttavia che una parte potrebbe generare una zona di accumulo nell'Oceano Artico. Secondo il modello matematico, la maggior parte delle mascherine, dei guanti e degli altri rifiuti plastici legati alla pandemia che finisce in mare deriva dai Paesi asiatici, un dato che ha sorpreso gli autori dello studio, dato che non è lì che il coronavirus SARS-CoV-2 ha colpito e sta colpendo più duramente. “Le maggiori fonti di rifiuti in eccesso erano gli ospedali in aree alle prese con problemi di gestione già prima della pandemia; semplicemente non sono stati organizzati per gestire una situazione in cui sono stati prodotti più rifiuti”, ha dichiarato la coautrice dello studio Amina Schartup, assistente professore presso lo Scripps Oceanography.

Larga parte di questi rifiuti finisce inizialmente nei fiumi e successivamente viene trasportata nei mari e negli oceani. I principali responsabili di questo scarico di plastica sono i fiumi asiatici, che rappresentano ben il 73 percento del computo totale. I primi tre fiumi a contribuire all'inquinamento sono lo Shatt al-Arab, l'Indo e lo Yangtze, “che scaricano nel Golfo Persico, nel Mar Arabico e nel Mar Cinese Orientale”, spiegano gli esperti. I fiumi europei sono invece responsabili dell'11 percento dello scarico della spazzatura di plastica. “Sappiamo che se i rifiuti vengono rilasciati dai fiumi asiatici nell'Oceano Pacifico settentrionale, alcuni di quei detriti finiranno probabilmente nell'Oceano Artico, una sorta di oceano circolare che può essere un po' come un estuario, accumulando ogni genere di cose che vengono rilasciate dai continenti”, ha spiegato la dottoressa Schartup. Il modello prevede che larga parte dei detriti plastici che giungerà nell'Oceano Artico affonderà, mentre entro il 2025 si prevede la formazione di un'isola di spazzatura circumpolare.

La plastica e le microplastiche che ne derivano rappresentano un problema enorme per la fauna selvatica – in particolar modo uccelli marini, cetacei e tartarughe marine – ma anche per la nostra salute, dato che finiscono inevitabilmente nella catena alimentare fin sulle nostre tavole. Il costante abuso di materiali plastici, il consumismo esasperato e il mancato rispetto delle procedure di riciclaggio sono tra i principali motori dell'inquinamento ambientale, ora reso ancor più drammatico per l'impatto della pandemia, come mostrano le immagini di questi animali morti o feriti a causa di mascherine, guanti e altri DPI. I dettagli della ricerca “Plastic waste release caused by COVID-19 and its fate in the global ocean” sono stati pubblicati sulla rivista scientifica PNAS.

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