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Covid 19

Perché le varianti del coronavirus che si somigliano sono un possibile segno di declino

Il professor Fausto Baldanti, direttore del laboratorio di Virologia Molecolare presso il San Matteo di Pavia, ha affermato che le mutazioni ricorrenti osservate nelle varianti del coronavirus SARS-CoV-2 sono un possibile segno del suo declino, una potenziale “perdita di capacità di sopravvivenza” del patogeno che potrebbe così diventare meno virulento.
A cura di Andrea Centini
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Particelle virali del coronavirus (in giallo). Credit: NIAID
Particelle virali del coronavirus (in giallo). Credit: NIAID
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Uno degli strumenti più efficaci per combattere la pandemia di COVID-19 è il sequenziamento genomico dei campioni virali estratti dai pazienti positivi al coronavirus SARS-CoV-2. Grazie a questa procedura, infatti, è possibile identificare e catalogare i vari ceppi/lignaggi del patogeno, che è in costante evoluzione fin da quando ha compiuto il salto di specie all'uomo (spillover) negli ultimi mesi del 2019. Secondo un recente studio guidato da scienziati del dell'Institute for Genomics and Evolutionary Medicine della Temple University di Philadelphia, attraverso indagini genetiche è stato determinato che il coronavirus e alcune delle sue varianti circolavano in Cina già dall'ottobre del 2019, tutti originati da un progenitore unico chiamato proCoV2. Secondo gli studiosi guidati dal professor Sudhir Kumar il patogeno muta molto lentamente, al ritmo di un paio di mutazioni al mese, ma le diverse combinazioni hanno dato vita a migliaia di linee figlie, fra le quali alcune, chiamate “varianti di preoccupazione” sono balzate agli onori della cronaca, come quella inglese, la sudafricana, la brasiliana e in tempi più recenti l'indiana.

Le mutazioni che interessano di più gli scienziati sono quelle a livello della proteina S o Spike, il “grimaldello biologico” che il coronavirus sfrutta per agganciarsi alle cellule umane, rompere la parete cellulare, riversare l'RNA virale all'interno e avviare il processo di replicazione che è alla base dell'infezione, chiamata COVID-19. Mutazioni a carico di questa componente possono favorire ad esempio la trasmissibilità del virus, come nel caso della variante inglese (che risulta fino al 90 percento più contagiosa del ceppo originale di Wuhan secondo questo studio), oppure possono favorire la resistenza, ovvero la capacità di eludere gli anticorpi neutralizzanti, come accaduto per le varianti sudafricana e brasiliana. Ma proprio grazie al sequenziamento genomico e al numero di nuove varianti che continua a crescere, gli scienziati si stanno accorgendo di un dettaglio da non sottovalutare: i nuovi lignaggi sono tutti molto simili fra di essi, con mutazioni a carico della proteina S localizzati quasi sempre negli stessi punti. Basti pensare alla mutazione di fuga immunitaria E484K, rilevata prima nella sudafricana, poi nella brasiliana e ora in quella indiana. Sembra che il virus stia esaurendo “le carte” per continuare a evolversi e, secondo alcuni studiosi, si tratterebbe addirittura di un segno del suo possibile declino.

A suggerirlo è il professor Fausto Baldanti, direttore presso il laboratorio di Virologia Molecolare del San Matteo di Pavia. Lo scienziato, intervistato da Repubblica, ha affermato che l'osservazione di mutazioni ricorrenti fa pensare che il coronavirus SARS-CoV-2 “stia esaurendo la capacità di sopravvivenza”. “Ciò che vediamo – ha affermato l'esperto – ci porta a pensare sempre più convintamente che il virus stia finalmente incontrando una fase che potremmo definire di declino”. La ragione risiederebbe nel fatto che il virus non può mutare all'infinito, a causa del numero limitato di posizioni sulla proteina S o Spike in cui possono verificarsi le modifiche genetiche. Per questa ragione le varianti iniziano a somigliarsi un po' tutte, con mutazioni emerse indipendentemente ma localizzate in pochi punti prevedibili. Ciò rappresenta un vantaggio per molteplici ragioni. Da una parte, infatti, rende più difficile l'eventuale resistenza ai vaccini, sia quelli già approvati che quelli previsti per il prossimo futuro, dall'altra può essere un segnale che indica una progressiva perdita di aggressività. Sin dall'inizio della pandemia molti esperti hanno suggerito che il coronavirus SARS-CoV-2, col passare del tempo, avrebbe potuto trasformarsi in un patogeno molto meno virulento, per continuare a sopravvivere nell'ospite umano. Secondo gli autori dello studio “Immunological characteristics govern the transition of COVID-19 to endemicity” pubblicato su Science, il destino del coronavirus in un paio di generazioni sarebbe quello di diventare un patogeno responsabile di un comunissimo raffreddore, come quello causato dagli altri quattro coronavirus umani.

Come specificato dal professor Baldanti, la speranza è che la somiglianza tra le diverse varianti sia "l’indicazione che effettivamente il Covid che abbiamo conosciuto sia impossibilitato a mutare all’infinito, che stia esaurendo la capacità di sopravvivenza", e che dunque si stia davvero trasformando in un virus umano meno aggressivo. Per avere la conferma di questo potenziale declino, naturalmente saranno necessari studi approfonditi e l'evidenza scientifica, che ancora manca. Nel frattempo la vaccinazione resta l'arma più preziosa che abbiamo per proteggere noi stessi e gli altri dalla COVID-19; non a caso, dove i vaccini sono più diffusi, sono stati registrati crolli significativi di infezioni, ricoveri in ospedale e soprattutto decessi. L'uscita da questo incubo potrebbe davvero non essere così lontana.

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