L’integrazione di Vitamina D nei pazienti Covid carenti può ridurre i rischi di ventilazione e morte
I pazienti contagiati dal coronavirus SARS-CoV-2 con carenza di vitamina D e ricoverati in ospedale, se ricevono un'integrazione del prezioso pro-ormone liposolubile possono beneficiare di una riduzione del rischio di ventilazione meccanica e di morire per l'infezione. Nel caso specifico, a offrire questa protezione sarebbe un'integrazione di almeno mille unità settimanali in chi presenta una carenza acclarata (come sottolineato dall'Istituto Humanitas, il fabbisogno giornaliero medio di vitamina D è di 400 unità al giorno, tuttavia si può arrivare anche a mille “in presenza di fattori di rischio e deficit”).
A determinare che integrare la vitamina D nei pazienti Covid carenti può offrire benefici contro complicanze e morte è stato un team di ricerca americano guidato da scienziati del Montefiore Health System e dell'Albert Einstein College of Medicine nel Bronx, Stato di New York. Gli scienziati, coordinati dalla dottoressa Corinne Levitus, specialista presso la divisione di Endocrinologia, Diabete e Metabolismo del Montefiore Medical Center, sono giunti alle loro conclusioni dopo aver condotto un'indagine su centinaia di pazienti Covid di cui erano noti i livelli di vitamina D, misurati fino a tre mesi prima del contagio e del ricovero in ospedale. Come sottolineato dalla dottoressa Levitus e colleghi in un comunicato stampa, la ricerca medica ha dimostrato che l'integrazione con vitamina D può avere la capacità di prevenire l'infiammazione e altre patologie respiratorie, tuttavia non è ancora chiaro il legame con la COVID-19, benché diversi studi abbiano trovato un'associazione positiva tra livelli adeguati di vitamina D (in realtà un insieme di 5 vitamine differenti) e rischi minori di complicanze, ospedalizzazione e morte.
Gli autori dello studio hanno analizzato i casi di circa 130 pazienti con COVID-19 di cui erano noti bassi livelli di vitamina D prima del ricovero; mettendo a confronto quelli che hanno ricevuto l'integrazione da 1.000 unità al mese con quelli che non l'hanno ricevuta, è emerso che i primi avevano meno probabilità di aver bisogno della ventilazione meccanica e di morire dopo il ricovero, sebbene – come specificato dagli autori dello studio – le differenze non sono risultate statisticamente significative. “Anche se non siamo stati in grado di mostrare un legame definitivo con la COVID-19 grave, è chiaro che i pazienti con poca vitamina D dovrebbero ricevere un'integrazione non solo per la salute delle ossa, ma anche per una protezione maggiore contro la COVID-19 grave”, ha dichiarato la professoressa Levitus. “Ci auguriamo che questa ricerca incoraggi i medici a discutere l'aggiunta dell'integratore con i propri pazienti che hanno poca vitamina D, in quanto ciò potrebbe ridurre le probabilità che le persone sviluppino la COVID-19 grave”, ha aggiunto la scienziata.
Una recente ricerca condotta da scienziati dell’Università di Chicago su cinquemila pazienti ha dimostrato che coloro che avevano concentrazioni di Vitamina D uguali o superiori a 40 nanogrammi per millilitro presentavano un rischio di contagio da SARS-CoV-2 inferiore, in particolar modo se neri. 30 nanogrammi per millilitro è considerata una soglia sufficiente di Vitamina D negli Stati Uniti, benché i valori possano variare sensibilmente da Paese a Paese. Lo studio “Vitamin D sufficiency, a serum 25-hydroxyvitamin D at least 30 ng/mL reduced risk for adverse clinical outcomes in patients with COVID-19 infection” condotto da ricercatori del Centro Medico dell'Università di Boston ha determinato che livelli adeguati di Vitamina D riducono il rischio di complicanze come la tempesta di citochine e la desaturazione dell'ossigeno nei pazienti Covid, mentre uno studio dell'Università di Barcellona ha rilevato un calo significativo della mortalità e dell'ospedalizzazione nei pazienti trattati con un metabolita della vitamina D3, il calcifediolo. I dettagli della nuova ricerca sono stati presentati durante l'ENDO 2021, il meeting annuale per la ricerca endocrinologica che quest'anno si sta tenendo online per via dell'emergenza coronavirus.