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Covid 19

La vitamina D può ridurre il rischio di infezione da coronavirus, soprattutto nei neri

Analizzando i tassi di infezione da coronavirus SARS-CoV-2 in circa cinquemila pazienti di cui erano noti i livelli di vitamina D, un team di ricerca dell’Università di Chicago ha dimostrato che coloro che avevano concentrazioni uguali o superiori a 40 nanogrammi per millilitro avevano un rischio di contagio inferiore, soprattutto se neri.
A cura di Andrea Centini
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Da quando è scoppiata la pandemia di COVID-19 sono stai pubblicati diversi studi scientifici che hanno rilevato un'associazione positiva tra livelli adeguati di vitamina D – in realtà un insieme di cinque differenti vitamine – e un ridotto rischio di contagio o di esito grave per l'infezione da coronavirus SARS-CoV-2. Tali ricerche sono state effettuate poiché si ritiene che la vitamina D, assimilabile principalmente attraverso l'esposizione al Sole (in sicurezza) ma anche con determinati alimenti e integratori, riesca in qualche modo a favorire il sistema immunitario e proteggerci dalle infezioni virali. Ora un nuovo studio mostra che livelli elevati di questa vitamina, superiori a 40 nanogrammi (ng) per millilitro (mL), può ridurre il rischio di infezione, in particolar modo nelle persone nere.

A determinare che concentrazioni superiori di vitamina D possono ridurre il rischio di COVID-19 è stato un team di ricerca americano dell'Università di Chicago. Gli scienziati, coordinati dal professor David Meltzer, Chief of Hospital Medicine presso la UChicago Medicine, sono giunti alle loro conclusioni dopo aver condotto uno studio di coorte su poco meno di cinquemila individui, dei quali erano noti i livelli di vitamina D prima di sottoporsi al tampone oro-rinofaringeo per Covid. Di norma 30 ng / mL di vitamina D sono considerati sufficienti, ma tale valore può variare anche fra diversi Paesi. Tra gli individui neri coinvolti nella ricerca, il rischio di risultare positivi al tampone era di 2,64 volte maggiore in chi aveva un livello di vitamina D compreso tra 30 e 39,9 ng / mL rispetto a chi lo aveva di 40 ng / mL o superiore. Il rischio iniziava a diminuire a tale soglia con un incremento del 5 percento per ogni aumento di 1 ng / mL. Il professor Meltzer e colleghi non hanno osservato associazioni statisticamente significative tra livelli di vitamina D e tassi di positività alla COVID-19 negli individui bianchi.

Altri studi, tuttavia, come la ricerca “Calcifediol Treatment and COVID-19-Related Outcomes” pubblicata come preprint su The Lancet da un team di ricerca dell'Università Autonoma di Barcellona, ha dimostrato che trattamenti col calcifediolo ( il principale metabolita della vitamina D3) hanno ridotto la necessità di terapia intensiva dell'80 percento e la mortalità dei pazienti Covid del 60 percento. Lo studio “Vitamin D sufficiency, a serum 25-hydroxyvitamin D at least 30 ng/mL reduced risk for adverse clinical outcomes in patients with COVID-19 infection” pubblicato su PloS ONE da scienziati del Centro Medico dell'Università di Boston ha invece rilevato che avere livelli adeguati di Vitamina D riduce il rischio di complicanze potenzialmente fatali della COVID-19, come crollo della saturazione dell'ossigeno e tempesta di citochine. D'altro canto, lo studio “Vitamin D Status in Hospitalized Patients with SARS-CoV-2 Infection” ha rilevato che l'80 percento dei pazienti coinvolti nell'analisi e contagiati dal coronavirus aveva bassi livelli di vitamina D. I benefici di questi preziosi pro-ormoni, dunque, sono per tutti e indipendenti dall'etnia, anche se la nuova ricerca ha rilevato benefici principalmente per i neri.

“Questi nuovi risultati ci dicono che avere livelli di vitamina D superiori a quelli normalmente considerati sufficienti è associato a un ridotto rischio di essere positivi al test per COVID-19, almeno negli individui neri”, ha dichiarato in un comunicato stampa il professor Meltzer. “Questo supporta la preparazione di studi clinici per verificare se la vitamina D possa essere un trattamento mirato per ridurre il rischio di malattia, soprattutto nelle persone nere”, ha aggiunto lo scienziato. Meltzer spiega che la maggior parte della letteratura medica sulla vitamina D si concentra sulla salute delle ossa, ma ci sono anche “alcune prove che la vitamina D potrebbe migliorare la funzione immunitaria e diminuire l'infiammazione”. I risultati sono stati un po' inconcludenti, spiega il ricercatore, probabilmente a causa dei dosaggi utilizzati, che magari potevano essere sufficienti per le ossa ma non per supportare il sistema immunitario. Alla luce dei nuovi risultati, prevede di organizzare studi molto più ampi e approfonditi per dimostrare quale possa essere un'integrazione efficace di vitamina D contro la COVID-19. Naturalmente qualunque integrazione di vitamina D deve essere discussa col proprio medico curante, anche perché se si superano determinati livelli si va incontro a effetti collaterali da non sottovalutare. I dettagli dello studio “Association of Vitamin D Levels, Race/Ethnicity, and Clinical Characteristics With COVID-19 Test Results” sono stati pubblicati sulla rivista scientifica JAMA Infectious Diseases.

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