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Covid 19

La vitamina D potrebbe non proteggere dalla Covid, come ritenuto fino ad oggi

Mettendo a confronto i profili genetici di 14mila pazienti con COVID-19 con quelli di 1,3 milioni di persone non contagiate dal coronavirus SARS-CoV-2, un team di ricerca internazionale guidato da scienziati canadesi dell’Università McGill ha determinato che la vitamina D potrebbe non proteggere dal rischio di contagio, complicazioni e ricovero in ospedale.
A cura di Andrea Centini
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Poiché la vitamina D gioca un ruolo fondamentale nel corretto funzionamento del sistema immunitario, sin dall'inizio della pandemia di COVID-19 gli scienziati hanno ipotizzato che esserne carenti potesse aumentare il rischio di contagio, di sviluppare la forma grave dell'infezione e di morire per essa. Molteplici studi pubblicati negli ultimi mesi hanno “certificato” questa ipotesi, rilevando che effettivamente i pazienti Covid con livelli inadeguati di vitamina D – in realtà un insieme di 5 vitamine – hanno probabilità superiori di complicazioni, ventilazione, ricovero in terapia intensiva e decesso. Ora, tuttavia, un nuovo studio sembra sovvertire questa "verità acquisita": la vitamina D non fornirebbe uno scudo contro il patogeno pandemico.

A determinarlo è stato un team di ricerca internazionale guidato da scienziati del Jewish General Hospital e del Dipartimento di Epidemiologica, Biostatistica e Salute del Lavoro dell'Università McGill di Montréal, Canada, che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi della Scuola di Medicina dell'Università di Kyoto (Giappone), del Technion–Israel Institute of Technology di Haifa (Israele), del Dipartimento di Genetica Medica dell'Università di Siena e dell'Azienda Ospedaliera Universitaria Senese. Gli scienziati, coordinati dal professor Guillaume Butler-Laporte, medico presso il Lady Davis Institute dell'ateneo del Quebec, sono giunti alle loro conclusioni dopo aver condotto un peculiare studio di randomizzazione mendeliana analizzando “varianti genetiche fortemente associate a livelli aumentati di vitamina D”, come indicato in un comunicato stampa. In parole semplici, gli scienziati non sono andati a misurare i livelli di vitamina D, ma hanno suddiviso i pazienti in base al profilo genetico, più o meno predisposto alle alte concentrazioni di vitamina D. Nello specifico si sono concentrati sulla forma chiamata 25-idrossi vitamina D o 25OHD, che da precedenti studi è stata considerata protettiva contro la COVID-19.

Nello studio sono stati coinvolti i profili genetici di oltre 440mila persone di origine europea (inclusi 401.460 della Biobanca britannica) come riferimento per le varianti. Mettendo a confronto i dati di 14.134 pazienti con COVID-19 con quelli di 1,3 milioni di persone non contagiate dal coronavirus SARS-CoV-2 di 11 diversi Paesi, il professor Butler-Laporte e colleghi hanno determinato che tra chi aveva contratto la malattia, “non c'era differenza tra i livelli di vitamina D e le probabilità di essere ricoverati in ospedale o di ammalarsi gravemente”. “In questo studio di randomizzazione mendeliana a 2 campioni, non abbiamo osservato prove a sostegno di un'associazione tra i livelli di 25OHD e la suscettibilità, la gravità o l'ospedalizzazione per COVID-19. Quindi, l'integrazione di vitamina D come mezzo per proteggere dagli esiti peggiori della COVID-19 non è supportata da prove genetiche. Altre vie terapeutiche o preventive dovrebbero avere una priorità maggiore per gli studi randomizzati controllati sulla COVID-19”, affermano gli autori dello studio.

Ma perché condurre un'indagine sui profili genetici anziché concentrarsi sugli effettivi livelli di vitamina D di ciascun paziente, come avvenuto in altri studi? A spiegarlo è il professor Butler- Laporte: “La maggior parte degli studi sulla vitamina D sono molto difficili da interpretare poiché non possono adattarsi ai noti fattori di rischio per COVID-19 grave come l'età avanzata o le malattie croniche, che sono anche predittori di un basso contenuto di vitamina D. Pertanto, il modo migliore per rispondere alla domanda sull'effetto della vitamina D sarebbe attraverso studi randomizzati, ma questi sono complessi e richiedono molte risorse e richiedono molto tempo durante una pandemia”. Così hanno deciso di sfruttare la randomizzazione mendeliana per le varianti genetiche, che già in passato aveva dato risultati significativi sull'impatto dell'integrazione della vitamina D. Va comunque tenuto presente che non valutare l'effettiva concentrazione di vitamina D e aver usato come riferimento le sole varianti genetiche europee sono limiti da non sottovalutare, pertanto i risultati dello studio dovranno essere confermati da indagini più approfondite. I dettagli della ricerca “Vitamin D and COVID-19 susceptibility and severity in the COVID-19 Host Genetics Initiative: A Mendelian randomization study” sono stati pubblicati sull'autorevole rivista scientifica PLOS Medicine.

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