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Covid 19

La pandemia di coronavirus rischia di scatenare una futura ondata di parkinsonismo

A causa dei danni neurologici innescati dalla COVID-19, l’infezione provocata dal coronavirus SARS-CoV-2, in futuro i pazienti che hanno superato la malattia potrebbero sviluppare il parkinsonismo. Secondo un team di ricerca australiano rischiamo una vera e propria ondata di casi in futuro. Per questo raccomandano un costante monitoraggio di chi è stato colpito dal patogeno.
A cura di Andrea Centini
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Pur essendo causata da un virus respiratorio, la COVID-19 è un'infezione poliedrica che può avere effetti significativi su numerosi organi e sistemi del nostro organismo, dai reni al cuore, passando per l'intestino e il cervello. Sempre più studi stanno dimostrando che il coronavirus SARS-CoV-2 può determinare serie conseguenze neurologiche, e secondo alcuni scienziati c'è il rischio che in futuro potremmo avere a che fare con una vera e propria ondata di parkinsonismo, una condizione nella quale emergono sintomi analoghi a quelli del morbo di Parkinson, come movimenti più lenti e tremori. È proprio di questi giorni la notizia di un 45enne israeliano che dopo aver contratto la patologia ha sviluppato i suddetti sintomi.

A suggerire che si possa rischiare un'ondata di parkinsonismo tra i pazienti colpiti dalla COVID-19 è stato un team di ricerca australiano guidato da scienziati del Florey Institute of Neuroscience and Mental Health, che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi del Dipartimento di Farmacologia e Terapia dell'Università di Melbourne, del Centro di ricerca sulla demenza di Melbourne e del Dipartimento di Neurologia del Royal Melbourne Hospital. Gli scienziati, coordinati dal professor Kevin J. Barnham, neuroscienziato presso l'istituto di Parkville, hanno questo concreto sospetto poiché ormai è sempre più evidente come il coronavirus riesca a determinare danni alle cellule cerebrali e neuroinfiammazione, gettando le basi per una potenziale e successiva neurodegenerazione.

Come specificato da Barnham e colleghi in un comunicato stampa, i sintomi neurologici diagnosticati nelle persone contagiate dal patogeno emerso in Cina sono di varia gravità, e spaziano dalla diffusa perdita dell'olfatto all'ipossia cerebrale, ovvero la mancanza di ossigeno al cervello, che può avere esito fatale. Proprio la perdita dell'olfatto (anosmia) è considerato un sintomo molto significativo nell'ottica della potenziale ondata di parkinsonismo, come spiegato dalla coautrice dello studio Leah Beauchamp. “Abbiamo scoperto che in tre persone su quattro infettate dal virus SARS-CoV-2 in media è stata segnalata la perdita dell'olfatto o una riduzione dell'olfatto. Anche se all'apparenza questo sintomo può sembrare di poco conto, in realtà ci dice molto di ciò che sta accadendo all'interno, e cioè che è in atto un'infiammazione acuta nel sistema olfattivo responsabile dell'olfatto”, ha sottolineato la ricercatrice.

Poiché la perdita dell'olfatto viene diagnosticata nel 90 percento dei pazienti che sviluppano il morbo di Parkinson, a circa dieci anni dalla comparsa dei caratteristici sintomi motori, gli scienziati australiani ritengono plausibile il rischio di parkinsonismo per i contagiati dal coronavirus (anche se è tutto da confermare). Alla luce di queste considerazioni, raccomandano di monitorare costantemente i pazienti guariti dalla COVID-19: “Poiché è possibile identificare i precursori del morbo di Parkinson – scrivono gli scienziati nell'abstract del proprio studio -, proponiamo uno screening a lungo termine per i casi di SARS-CoV-2 in cui sono presenti espressioni di malattia neurodegenerativa”. In altri termini, laddove vi siano segnali di un possibile sviluppo di parkinsonismo, suggeriscono di intervenire precocemente con terapie neuroprotettive. Queste ultime sono infatti efficaci nella fase iniziale della patologia, e non più quando i sintomi motori diventano manifesti, causati proprio dalla neurodegenerazione.

A suggerire la possibile ondata di parkinsonismo da COVID anche ciò che è accaduto in seguito alla pandemia di influenza spagnola del 1918, "quando il rischio di sviluppare il morbo di Parkinson si impennò da due a tre volte", ha specificato il professor Barnham. “Dato che la popolazione mondiale è stata nuovamente colpita da una pandemia virale, è davvero molto preoccupante considerare il potenziale aumento globale di malattie neurologiche che potrebbe determinarsi in futuro”, ha aggiunto lo scienziato. Del resto il morbo di Parkinson viene da tempo associato a infezioni virali, e tra i patogeni nel mirino degli scienziati (HIV, virus dell'influenza A, virus di Epstein-Barr, virus dell'epatite C, virus varicella-zoster e altri ancora) adesso potrebbe aggiungersi anche il SARS-CoV-2. I dettagli della ricerca australiana “Parkinsonism as a Third Wave of the COVID-19 Pandemic?” sono stati pubblicati sulla rivista scientifica specializzata Journal of Parkinson's Disease.

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