20 grandi aziende produttrici di carne emettono più gas serra di Paesi come Francia e Germania
Le cinque più grandi aziende zootecniche impegnate nella produzione di carne e prodotti lattiero-caseari emettono la stessa quantità di gas a effetto serra di una delle principali compagnie petrolifere al mondo. Le emissioni di venti di queste grandi aziende sono addirittura superiori a quelle di Paesi sviluppati come la Francia, la Germania e la Gran Bretagna. Ciò nonostante, continuano a ricevere miliardi di dollari di finanziamenti e sovvenzioni di vario tipo, operando senza regolamentazioni sulle concentrazioni di anidride carbonica (CO2), metano e altri gas a effetto serra immessi in atmosfera. Questi sono solo alcuni dei drammatici dati riportati dal nuovo rapporto “Meat Atlas: Facts and figures about the animals we eat 2021” messo a punto dagli attivisti della rete di organizzazioni ambientaliste “Friends of the Earth International” (FOEI) e dall'associazione Heinrich Böll Stiftung.
In base al rapporto, che cita dati dell'Organizzazione per l'alimentazione e l'agricoltura delle Nazioni Unite (FAO), nel 2013 gli allevamenti di bestiame sono stati responsabili del 14,5 percento delle emissioni globali di gas a effetto serra. Il 45 percento di questa quota derivava dalla produzione e dalla lavorazione dei mangimi; il 39 percento dal processo di fermentazione che avviene nell'apparato digerente delle centinaia di milioni di ruminanti allevati (bovini, ovini e caprini) e dunque dal rilascio di metano; il restante 10 percento dallo stoccaggio e dalla gestione del letame degli animali allevati. Nel complesso, indica il rapporto, le emissioni degli allevamenti rappresentano il 60 percento delle emissioni complessive legate al settore alimentare, che a sua volta, secondo l’Intergovernmental Panel on Climate Change dell'ONU, arriva fino al 37 percento delle emissioni globali di gas a effetto serra. Nonostante questo impatto significativo sull'ambiente, il bestiame contribuisce soltanto “al 18 percento delle calorie e al 37 percento dell'apporto proteico nella popolazione umana”, come evidenziato nel Meat Atlas.
Nonostante le gigantesche industrie zootecniche siano in grande espansione nei Paesi al di sotto dell'equatore, secondo il rapporto i più grandi produttori di carne al mondo sono e continueranno ad essere la Cina, gli Stati Uniti e i Paesi membri dell'Unione Europea, oltre al Brasile (dove ben 175 milioni di ettari di terreno sono destinati agli allevamenti). Secondo il Meat Atlas entro il 2029 questi Paesi saranno ancora responsabili della produzione del 60 percento della carne a livello mondiale. Basti pensare che nella sola Unione Europea, nel 2018, il 17 percento delle emissioni di gas serra è derivato dagli allevamenti di animali. Circa il 70 percento dei terreni agricoli nella UE è destinato al pascolo del bestiame o alla coltivazione di mangimi per sostenerlo, con un impatto drammatico sulla qualità del suolo, sulla biodiversità (le monocolture hanno fatto crollare le popolazioni di insetti) e sulla deforestazione. Anche gli allevamenti di pollame e suini, spiega il nuovo rapporto, ha avuto un impatto significativo nelle emissioni negli ultimi due decenni.
Nonostante questa quota significativa nelle emissioni, "a livello globale, non un singolo governo richiede ai produttori di carne di documentare le proprie emissioni o standardizzare i propri obiettivi di riduzione delle emissioni in modo da consentire confronti all'interno il settore", sottolinea Friends of the Earth International. "Il settore si basa sull'autodichiarazione. Ma poche aziende segnalano le proprie emissioni, figuriamoci eventuali obiettivi per ridurli", chiosano gli attivisti. Come affermato dagli organizzatori delle recenti Giornata della Terra (Earth Day) e Giornata Mondiale dell'Ambiente, abbracciare una dieta principalmente basata su alimenti di origine vegetale è uno dei metodi più efficaci che ciascuno di noi ha per limitare la propria impronta di carbonio e il riscaldamento globale.
I cambiamenti climatici rappresentano la principale emergenza globale per l'intera umanità, più della pandemia di COVID-19 che stiamo vivendo. Se infatti non riusciremo a contenere l'aumento della temperatura rispetto all'epoca preindustriale, tagliando in modo rapido e netto le emissioni di anidride carbonica e altri gas a effetto serra, la popolazione umana – e non solo – è destinata a “sofferenze indicibili”, col rischio i veder scomparire la civiltà come la conosciamo oggi nel giro di pochi decenni. Il mare farà sparire sott'acqua intere isole, metropoli e regioni costiere; le ondate di calore mortali saranno sempre più frequenti, così come gli incendi e gli eventi atmosferici più catastrofici; verrà favorita la diffusione di nuove malattie infettive tropicali e aumenteranno siccità estreme, carestie, migrazioni di massa e guerre per le (poche) risorse rimaste. Questo è solo un "assaggio" di ciò che ci aspetta se continueremo a far salire la febbre del pianeta, e gli allevamenti intensivi-industriali di bestiame per la produzione della carne rappresentano una quota significativa di questo problema.