Quali sono le varianti del coronavirus che possono ridurre l’efficacia dei vaccini Covid
Sulla campagna vaccinale globale contro il coronavirus SARS-CoV-2 iniziata alla fine dello scorso anno sta incombendo la minaccia delle varianti emergenti, alcune delle quali caratterizzate da mutazioni che conferirebbero una certa capacità di “eludere” gli anticorpi neutralizzanti. Non solo quelli prodotti da una precedente infezione naturale, ma anche quelli scaturiti dalla vaccinazione. Ciò significa che tali varianti potrebbero catalizzare il rischio di reinfezione – come starebbe avvenendo nella città di Manaus, in Brasile – e ridurre l'efficacia dei vaccini anti COVID. La mutazione che preoccupa di più in tal senso si chiama E484K ed è emersa indipendentemente in diversi lignaggi del SARS-CoV-2 balzati agli onori della cronaca. Posizionata sulla proteina S o Spike del patogeno pandemico, essa determina la sostituzione dell'acido glutammico (E) con la lisina (K) nella posizione 484. Si tratta di una cosiddetta mutazione di fuga, poiché appunto avrebbe un impatto sulla capacità della risposta immunitaria. Come dichiarato dal professor Ravindra Gupta dell'Università di Cambridge, la presenza della mutazione E484K “aumenta sostanzialmente la quantità di anticorpi sierici necessari per prevenire l'infezione delle cellule”, mentre il professor Lawrence Young, virologo e docente di oncologia molecolare presso la Warwick University, ha affermato che la E484K “può indebolire la risposta immunitaria e influire anche sulla longevità della risposta anticorpale neutralizzante”. Ecco quali sono le varianti portatrici di questa mutazione che stanno preoccupando esperti e istituzioni.
La variante sudafricana
La variante sudafricana del coronavirus SARS-CoV-2, nota anche con i nomi B.1.351 e 501Y.V2, è stata identificata per la prima volta nell'area di Nelson Mandela Bay alla fine dello scorso anno, mentre la sua esistenza è stata annunciata il 18 Dicembre 2020 dal ministero della Salute del Sudafrica. È caratterizzata da una decina di mutazioni, tre delle quali concentrate sulla proteina S o Spike del coronavirus. Le più preoccupanti sono la sopracitata E484K e la K417N, che le conferirebbero un certo grado di resistenza ai vaccini, ma anche la terza (N501Y) è finita nel mirino degli scienziati. Condivisa con la variante inglese B.1.1.7, sarebbe alla base della maggiore trasmissibilità. A dimostrare che la variante sudafricana possa essere meno sensibile ai vaccini vi sono i risultati degli studi clinici condotti sui vaccini anti Covid di Johnson & Johnson e Novavax: per quanto concerne il primo, l'efficacia è risultata essere del 72 percento negli Stati Uniti e del 57 percento in Sudafrica, mentre per il secondo l'efficacia generale è risultata essere dell'89,3 percento e solo del 49,4 percento in Sudafrica. Questi dati suggeriscono che la variante sudafricana abbia effettivamente una ridotta sensibilità ai vaccini. Va tuttavia sottolineato che pur innescandosi l'infezione, la protezione contro la morte resterebbe totale.
La variante brasiliana
Rilevata per la prima volta a Tokyo il 6 gennaio 2021 in turisti rientrati dal Brasile da scienziati del National Institute of Infectious Diseases (NIID), la variante brasiliana (nota come P.1, Variant of Concern 202101/02 e 20J / 501Y.V3) si sta diffondendo in particolar modo in Amazzonia (Stato di Amazonas), dove starebbe dando vita a un numero significativo di reinfezioni. La città più colpita in assoluto è Manaus, dove era stata registrata una drammatica ondata di contagi anche durante la prima fase della pandemia. Il ceppo originale del virus si diffuse talmente tanto che le istituzioni locali pensavano addirittura che si fosse innescata l'immunità di gregge; ma l'emersione della variante brasiliana ha cambiato tutto. Nelle ultime settimane è stato infatti registrato un nuovo e inatteso boom di contagi. “Sembra esserci un numero crescente di prove che suggeriscono come la maggior parte dei casi associati alla seconda ondata possano essere effettivamente casi di reinfezione”, ha affermato al New York Times il professor Nuno R. Faria, docente presso l'Imperial College di Londra. Lo studio “Levels of SARS-CoV-2 Lineage P.1 Neutralization by Antibodies Elicited after Natural Infection and Vaccination” dell'Università di San Paolo ha dimostrato che gli anticorpi estratti dai contagiati durante la prima fase della pandemia hanno un'efficacia sei volte inferiore nel neutralizzare variante brasiliana rispetto alle altre. Il lignaggio P.1 presenta una ventina di mutazioni, la metà delle quali posizionate sulla proteina S o Spike. Fra esse la figurano la N501Y e la E484K; quest'ultima sarebbe quella responsabile delle reinfezioni.
La variante inglese (ulteriormente mutata)
Scoperta a settembre nell'Inghilterra sudorientale ed “esplosa” in vaste aree del Regno Unito alla fine dello scorso anno, la variante inglese B.1.1.7 (o Variant of Concern 202012/01 – VOC-202012/01) è stata già identificata in oltre 80 Paesi. Secondo un nuovo studio presenta una trasmissibilità maggiore dei ceppi precedenti fino al 90 percento, tuttavia non preoccupa gli esperti per le capacità di resistenza. I vaccini già approvati, infatti, hanno dimostrato di essere ampiamente efficaci contro di essa. Ciò nonostante, in alcuni casi è stata sviluppata anche la famigerata mutazione E484K, come mostrato nel rapporto “Investigation of novel SARS-CoV-2 variant Variant of Concern 202012/01” della Public Health England (PHE). Al momento si tratta solo di casi isolati, ma se questa forma ulteriormente mutata dovesse prendere il sopravvento, non solo presenterebbe una spiccata, maggiore contagiosità, ma anche la ridotta sensibilità agli anticorpi neutralizzanti manifestata dalle varianti sudafricana e brasiliana.
La variante B.1.525
La variante B.1.525, nota come VUI -202102/03, UK1188 e talvolta come “variante scozzese”, è stata identificata per la prima volta a dicembre 2020 nel Regno Unito e in Nigeria. Alla data del 15 febbraio risultava diffusa già in una decina di Paesi, come mostrato dal lavoro di sequenziamento genomico condotto da scienziati dell'Università di Edimburgo. La variante non presenta la mutazione N501Y già identificata nelle varianti inglese, sudafricana e brasiliana, ma ha la delezione HV 69-70 (perdita di due amminoacidi in posizione 69 e 70) che secondo lo studio “Recurrent emergence and transmission of a SARS-CoV-2 Spike deletion H69/V70” le darebbe un vantaggio nell'infettare le cellule. Inoltre è portatrice della mutazione E484K, e per questo si ritiene possa avere una ridotta sensibilità agli anticorpi. È una variante non ancora pienamente studiata, ma nel mirino degli scienziati a causa delle sue preoccupanti caratteristiche.
La variante “newyorchese” B.1.526
Due ricerche separate del California Institute of Technology (Caltech) di Pasadena e dell'Università Columbia di New York hanno descritto una nuova variante del coronavirus SARS-CoV-2 presente nella “Grande Mela”. Chiamata B.1.526, nel mese di febbraio è stata identificata quasi in un terzo dei campioni dei pazienti Covid newyorchesi; ciò significa che si sta diffondendo molto rapidamente. La variante si manifesta in due versioni caratterizzate dalle seguenti mutazioni: L5F, T95I, D253G, D614G, A701V e E484K o S477N. Quelle più preoccupanti, secondo gli esperti, sono le ultime due. La prima è la "solita", già presente in tutti gli altri lignaggi sopraindicati, mentre la seconda influenzerebbe il legame tra particelle del coronavirus e cellule umane. I dati sulla variante sono preliminari e dunque ancora non sono note le caratteristiche di trasmissibilità e sensibilità agli anticorpi.
Le varianti di Liverpool e Bristol
Nel Regno Unito sono state identificate altre due varianti portatrici della mutazione E484K. Si chiamano "Variant of Concern (VOC) 202102/02" e "Variant under investigation (VUI) 202102/01" e sono state riscontrate in poche decine di pazienti Covid, rispettivamente nelle aree di Bristol e di Liverpool. La prima è considerata più preoccupante dagli esperti della Public Health England (PHE), ma entrambe dovranno essere studiate a fondo a causa della presenza della mutazione di fuga immunitaria.