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Covid 19

Perché peso ed età possono renderci “superdiffusori” del coronavirus

Durante le epidemie di malattie infettive esistono soggetti chiamati “superdiffusori” che riescono a contagiare un numero sensibilmente maggiore di persone, giocando un ruolo significativo nella diffusione dei patogeni. Un nuovo studio dell’Università di Tulane ha dimostrato che i soggetti più anziani e con un indice di massa corporeo più elevato espellono il triplo delle goccioline respiratorie nell’ambiente.
A cura di Andrea Centini
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A marzo dello scorso anno, durante la prima ondata della pandemia di COVID-19, il corista di una chiesa positivo al coronavirus SARS-CoV-2 (con lievi sintomi) riuscì a infettare ben 52 colleghi durante una sessione di canto, alcuni dei quali purtroppo persero la vita. Si è trattato di uno dei casi di “superdiffusore” più significativi in assoluto durante l'emergenza sanitaria che stiamo vivendo, ma ne sono balzati agli onori della cronaca diversi altri, ad esempio nei ristoranti. I superdiffusori sono pazienti con un'elevata capacità di contagio e sono noti anche per diverse altre epidemie di malattie infettive. Esiste infatti una sorta di "regola epidemiologica" che vede l'80 percento delle trasmissioni causato soltanto dal 20 percento dei positivi. Ma quali sono le caratteristiche che possono renderci dei superdiffusori?

Al di là di una vita con numerosi contatti sociali, vi sono caratteristiche fisiche-biologiche che possono renderci dei potenziali superdiffusori di coronavirus SARS-CoV-2, in particolar modo l'età e il peso corporeo, così come momenti precisi dell'infezione che rendono più probabile il rilascio di un numero maggiore di particelle virali. A dimostrarlo è stato un team di ricerca americano guidato da scienziati del Tulane National Primate Research Center di Covington e della Scuola di Medicina dell'Università di Tulane, che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi del Dipartimento di Ingegneria chimica e biologica del Massachusetts Institute of Technology (MIT), dell'azienda Sensory Cloud e della Scuola di Ingegneria e Scienze Applicate “John A. Paulson” dell'Università di Harvard. Gli scienziati, coordinati dal professor Chad J. Roy, docente presso il Dipartimento di Microbiologia e Immunologia dell'università della Louisiana, sono giunti alle loro conclusioni dopo aver condotto indagini su coorti umane e con scimmie. Il professor Roy e colleghi hanno determinato che i soggetti più anziani e con indici di massa corporea (BMI – body mass index) più elevati espiravano una quantità di goccioline respiratorie (droplet e aerosol) tre volte superiore rispetto ad altre fasce del campione studiato. Gli scienziati hanno coinvolto 194 soggetti umani non infettati, e misurando le concentrazioni di particelle espulse hanno scoperto che il 18% di essi (35) produceva l'80 percento del bioaerosol espirato dall'intero gruppo. Si trattava dei tipici superdiffusori nella classica distribuzione 20:80 osservata anche in altri patologie infettive.

Nell'esperimento con le scimmie, gli scienziati americani hanno osservato che le concentrazioni di aerosol aumentavano sensibilmente con il progredire dell'infezione da COVID-19, “raggiungendo livelli massimi una settimana dopo l'infezione prima di tornare alla normalità dopo due settimane”, si legge in un comunicato stampa dell'ateneo. Con l'avanzare dell'infezione, le particelle virali si sono ridotte in dimensioni, raggiungendo appena un singolo micron di diametro al culmine della malattia. Poiché minore è la dimensione delle particelle e maggiore è la concentrazione di quelle espulse mentre si respira, parla o tossisce, e poiché queste particelle di aerosol possono restare sospese in aria più a lungo, possono viaggiare più lontano e penetrare più facilmente e in profondità nei polmoni di chi le inspira, è proprio durante la fase acuta che si produrrebbe il maggior numero di goccioline infettive (sebbene altri studi identifichino il momento di maggiore infettività attorno all'esordio dei sintomi). “Abbiamo visto un simile aumento delle goccioline durante la fase dell'infezione acuta in altre malattie infettive, come la tubercolosi”, ha dichiarato il professor Roy.

“Mentre i nostri risultati mostrano che i giovani e i sani tendono a generare molte meno goccioline rispetto ai più anziani e ai meno sani, dimostrano anche che chiunque di noi, se colpito da COVID-19, può essere a rischio di produrre un gran numero di goccioline respiratorie”, ha spiegato il coautore dello studio David Edwards. Una recente ricerca dell'Università della Florida Orientale ha invece dimostrato che esistono anche altre due caratteristiche peculiari in grado di influenzare la nostra capacità di diventare superdiffusori, ovvero la congestione nasale e una dentatura sana: quando il naso è chiuso, infatti, le goccioline escono più velocemente dalla bocca, così come quando si ha una dentatura completa e sana, che restringendo lo spazio a disposizione del flusso d'aria lo proietta a velocità e distanze maggiori. I dettagli della nuova ricerca “Exhaled aerosol increases with COVID-19 infection, age, and obesity” sono stati pubblicati sulla rivista scientifica PNAS.

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