Perché non ha senso fare un test sierologico prima della terza dose di vaccino Covid
Una terza dose di vaccino anti Covid come richiamo o booster è considerata un'arma particolarmente preziosa per combattere la pandemia di COVID-19, come evidenziato dai dati del Ministero della Salute Israeliano. In Italia è stata già approvata per gli over 60, i pazienti fragili, gli operatori sanitari e altre categorie particolarmente esposte al rischio di contagio da coronavirus SARS-CoV-2, ma molto probabilmente sarà estesa a tutta la popolazione a partire dall'inizio del nuovo anno. La dose di richiamo, da non confondere con l'effettiva terza dose che serve a concludere il ciclo vaccinale di base nei soggetti immunocompromessi, come spiegato dall'Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) ha lo scopo mantenere una efficace risposta del sistema immunitario contro il patogeno pandemico, rimpinguando le fila degli anticorpi neutralizzanti e stimolando altre risposte.
Alla luce di queste dinamiche, alcuni si stanno chiedendo se abbia senso effettuare un test sierologico (la conta degli anticorpi, in pratica), prima di sottoporsi al richiamo del vaccino anti Covid. Come sottolineato a Che tempo che fa dal virologo e divulgatore scientifico Roberto Burioni dell'Università Vita – Salute San Raffaele di Milano, la risposta è seccamente no. “Voglio aggiungere che non serve a niente misurare gli anticorpi prima della terza dose perché il livello di anticorpi contro il virus che causa il Covid presente nel sangue non è correlato alla protezione”, ha dichiarato Burioni durante la trasmissione in onda su Rai 3. “È una pessima idea”, ha chiosato lo scienziato. In parole semplici, il numero di anticorpi non è strettamente connesso a quanto siamo effettivamente protetti dall'infezione.
La ragione risiede nel fatto che il nostro “scudo” contro la malattia dipende non solo dalla risposta umorale, ovvero dai suddetti anticorpi, ma anche dal braccio della risposta cellulare, che coinvolge i linfociti B e i linfociti T. I linfociti B o cellule della memoria sono fabbriche che si ricordano del nemico – nel caso specifico il coronavirus SARS-CoV-2 –, pronte a produrre nuove immunoglobuline IgG (anticorpi neutralizzanti) non appena il nostro organismo viene nuovamente esposto al patogeno. I linfociti T vanno invece a caccia delle cellule che sono già state infettate dal virus e le distruggono, spingendole all'apoptosi o suicidio cellulare. I livelli di anticorpi nel nostro organismo calano naturalmente dopo i picchi della fase acuta di un'infezione o della vaccinazione per diverse ragioni; ad esempio, anche per il semplice fatto che il nostro sangue non può trasformarsi in un brodo denso di anticorpi contro tutti i patogeni che abbiamo incontrato nella nostra vita. Proprio per questo esistono le cellule B che si annidano nel midollo osseo, che si attivano a produrre nuovi anticorpi all'occorrenza.
“Gli anticorpi, da soli, possono proteggere anche a livelli relativamente bassi, ma sono anche necessari i linfociti T se i livelli di anticorpi sono insufficienti”, hanno dichiarato i ricercatori del Center for Virology and Vaccine Research della Harvard Medical School di Boston, autori dell'articolo “Correlates of protection against SARS-CoV-2 in rhesus macaques” pubblicato su Nature. Anche le più importanti agenzie sanitarie come l’European Centre for Disease Prevention and Control (ECDC) e la FDA statunitense specificano che la conta degli anticorpi attraverso i test sierologici non rispecchia affatto il nostro grado di protezione alla malattia. Come spiegato dalla FDA, i test sierologici possono aiutare a identificare le persone che sono state esposte al coronavirus SARS-CoV-2, tuttavia questi test non vanno utilizzati “per misurare l’immunità o la protezione contro la COVID-19, specialmente dopo avere ricevuto il vaccino”. In definitiva, la terza dose migliorerà l'efficacia del nostro sistema immunitario nel tempo, ma non è il numero nudo e crudo degli anticorpi a difenderci dal patogeno pandemico.