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Covid 19

Perché la possibile autoestinzione della variante Delta non è la fine della pandemia di Covid

La potenziale scomparsa della variante Delta dal Giappone per “autoestinzione” non significa affatto che la pandemia di COVID-19 sta per finire.
A cura di Andrea Centini
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Particelle del coronavirus su cellule. Credit: NIAID
Particelle del coronavirus su cellule. Credit: NIAID
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Dal Giappone è arrivata la clamorosa notizia che nel Paese asiatico la famigerata variante Delta del coronavirus SARS-CoV-2 potrebbe essersi autoestinta, ovvero estinta naturalmente, a causa dell'accumulo di mutazioni che avrebbero reso il patogeno pandemico “difettoso” e incapace di replicarsi, dunque non più in grado di diffondersi. L'annuncio diffuso dal Japan Times, che dovrà essere confermato da studi più approfonditi, è stato accolto con clamore dai media internazionali, tuttavia in molti l'hanno mal interpretato, vedendo nella potenziale sparizione della variante Delta (B.1.617.2, ex seconda indiana) la fine della pandemia di COVID-19. Come sottolineato dagli stessi autori della ricerca, tuttavia, la scomparsa di una variante di preoccupazione – anche di una molto diffusa e contagiosa come la Delta – non significa affatto la sconfitta del coronavirus SARS-CoV-2. Il patogeno può infatti contare su un numero significativo di ceppi e diverse altre varianti minacciose, pronte a soppiantare tutte quelle che spariscono. Del resto, la stessa Delta è divenuta dominante dopo il crollo della Alfa (ex seconda inglese). Fortunatamente, le varianti attualmente in circolazione vengono tutte ben contrastate dai vaccini anti Covid.

La rivoluzionaria teoria dell'autoestinzione è stata avanzata a seguito dell'incredibile calo dei contagi registrato in Giappone dopo la drammatica terza ondata della scorsa estate, durante la quale, attorno al 20 agosto, si registravano circa 24-25mila nuovi positivi al giorno e 60 decessi. Questo elevatissimo numero di infezioni, ben peggiore di quello delle due precedenti ondate che hanno colpito il Paese asiatico, come mostra il grafico sottostante ha avuto un crollo repentino all'inizio di settembre, mentre nel giro di due mesi la curva si è praticamente appiattita. Basti pensare che lo scorso lunedì l'immensa metropoli Tokyo, la più grande al mondo con 40 milioni di abitanti, ha fatto registrare soltanto cinque nuove infezioni. È come se in tutta Italia oggi ci fossero 7/8 nuovi casi di positività, considerando che il nostro Paese ha 60 milioni di abitanti (senza dimenticare che Tokyo ha una popolazione molto più densa e dunque a rischio).

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A teorizzare la possibile scomparsa della variante Delta per autoestinzione è stato un team di ricerca multidisciplinare composto da scienziati dell'Istituto Nazionale di Genetica nipponico e dell'Università di Niigata. I ricercatori coordinati dal professor Ituro Inoue sostengono che la proteina nsp14 del coronavirus SARS-CoV-2, deputata alla correzione degli errori in fase di replicazione virale, abbia accumulato troppe mutazioni (che si verificano naturalmente) e per questo non sia stata più in grado di svolgere il suo compito. Ciò avrebbe fatto “inceppare” il processo di riproduzione della variante Delta, col risultato di abbatterne la diffusione e condannarla all'autoestinzione. Gli scienziati hanno confrontato la diversità genetica della variante Delta con quella della Alpha, determinando che la prima era più meno mutata della seconda; è un risultato definito “scioccante” da parte di Inoue e colleghi. La minore diversità genetica della Delta sarebbe dovuta proprio al blocco evolutivo del virus, a causa delle troppe mutazioni in nsp14. Infatti, non tutte le mutazioni sono vantaggiose per i virus.

La notizia della possibile autoestinzione della variante Delta, come indicato, è stata accolta da alcuni come una sorta di "luce in fondo al tunnel", equiparando la potenziale scomparsa dell'aggressivo ceppo con quella del coronavirus SARS-CoV-2 e di conseguenza della pandemia. Innanzitutto gli scienziati giapponesi hanno sottolineato che l'estinzione della variante Delta da altri Paesi è possibile ma non certa. Ad aiutare la popolazione asiatica vi è infatti un enzima – chiamato APOBEC3A – poco diffuso in quelle europee e africane, noto per la sua capacità di attaccare i virus a RNA come il patogeno pandemico. Sarebbe stato proprio il ruolo dell'enzima a far accumulare le mutazioni nella proteina nsp14, che infatti risulta molto meno mutata al di fuori del Paese asiatico. Ma al di là della perseveranza o meno della variante Delta, come specificato dal professor Inous sono in agguato molti altri ceppi che possono prendere il suo posto, anche in Giappone. “Altre varianti si sono intrufolate a poco a poco, tuttavia la Delta ne ha contenuto la diffusione in Giappone. Ma poiché ora non c'è nulla che le tenga a bada, c'è spazio per l'ingresso di nuovi ceppi poiché i vaccini da soli non risolverebbero il problema”, ha chiosato lo scienziato. Non a caso il professor Inoue sottolinea l'importanza della quarantena per chi arriva dall'estero, “perché non si sa mai cosa può arrivare”.

Il riferimento ai vaccini è legato al fatto che pur avendo una elevatissima protezione contro la COVID-19 grave e la morte, come evidenziato dai dati epidemiologici, risultano meno efficaci nel bloccare i contagi, pertanto una nuova variante – a maggior ragione se più trasmissibile e aggressiva – può comunque diffondersi agevolmente nella comunità, in particolar modo nelle aree dove ci sono meno vaccinati, più esposti sia al rischio di infezione che di malattia grave (dalle 9 alle 10 volte). Molti esperti ritengono che il coronavirus SARS-CoV-2 non verrà eradicato e dunque non sparirà più, ma si trasformerà in un patogeno endemico in grado di dar vita a epidemie localizzate e stagionali come quelle influenzali.

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