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Covid 19

Come fanno i virus a mutare e perché

Da quando il coronavirus SARS-CoV-2 è stato diagnosticato per la prima volta nell’essere umano, circa un anno fa, replicazione dopo replicazione si sono prodotte diverse mutazioni che hanno dato vita a migliaia di varianti, delle quali quella “inglese” risulta particolarmente significativa per numero e posizione delle modifiche. Ma come fa un virus a mutare? E come avviene questo meccanismo? Ecco cosa c’è da sapere.
A cura di Andrea Centini
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I virus mutano naturalmente, come specificato dai ricercatori del COVID-19 Genomics UK (COG-UK), organizzazione britannica impegnata nell'analisi e nel sequenziamento del genoma del coronavirus SARS-CoV-2, pertanto non c'è nulla da stupirsi che lo faccia anche il patogeno responsabile della pandemia che stiamo vivendo. Sono migliaia le varianti di SARS-CoV-2 emerse da queste mutazioni, ha osservato in un articolo pubblicato sulla rivista The Conversation la professoressa Lucy van Dorp, docente di Genomica Microbica presso l'Università della California di Los Angeles, tuttavia nella maggior parte dei casi esse differiscono le une dalle altre per un piccolo numero di mutazioni definitive. Ciò significa che i ceppi in circolazione – almeno cinque dei quali in Italia – hanno una diversità genomica limitata e non influenzano le caratteristiche fondamentali del coronavirus. Tuttavia a settembre è stata identificata la cosiddetta “variante ingleseB.1.1.7 caratterizzata da ben 17 mutazioni contemporanee (14 amminoacidiche e 3 delezioni), una situazione “senza precedenti” secondo gli autori dello studio “Preliminary genomic characterisation of an emergent SARS-CoV-2 lineage in the UK defined by a novel set of spike mutations”, che potrebbe essere legata a un'aumentata trasmissibilità del 70 percento. Le mutazioni potrebbero anche rendere il virus più o meno aggressivo o addirittura in grado di eludere un vaccino, ecco perché le varianti mutate sono nel mirino degli esperti. Ma come fa un virus a mutare?

Per comprendere meglio questo meccanismo biologico, facciamo un passo indietro partendo dalle caratteristiche strutturali del nuovo coronavirus. Il SARS-CoV-2 è un patogeno della sottofamiglia dei coronavirus (Orthocoronavirinae) caratterizzato da un genoma a RNA composto da 30mila basi o “lettere”. Ciascun virione ha un diametro medio di un centinaio di nanometri, e il suo cuore pulsante è rappresentato proprio dalla lunghissima sequenza di migliaia di lettere. Le mutazioni, in parole semplici, sono modifiche che occorrono all'organizzazione/disposizione di queste lettere, gruppi dei quali si riferiscono a determinati geni, che a loro volta codificano per le proteine virali. Una delle proteine virali fondamentali del coronavirus è la proteina S o Spike, quella che il patogeno sfrutta come un grimaldello biologico per legarsi al recettore ACE2-2 delle cellule umane, rompere la parete cellulare, riversare l'RNA virale all'interno a avviare il processo di replicazione che determina l'infezione.

Proprio il meccanismo della replicazione è il motivo per cui si determinano le mutazioni. Il virus deve costantemente replicare copie di sé stesso per infettare nuove cellule, e come spiegato dal professor Steve Wylie dell'Università di Murdoch sfrutta un enzima chiamato polimerasi. Immaginate la polimerasi come una “fotocopiatrice” dell'RNA virale. Quando avviene il processo di stampa il meccanismo può incepparsi, dar vita a errori che determinano la sostituzione di una lettera al posto di un'altra, oppure la cancellano. Il virus mutato che ne deriva spesso non presenta differenze significative da quello “selvatico”, originale, ma su di esso si applica la selezione naturale che può renderlo più o meno adatto per l'ospite che infetta, o magari lo rende più efficace per un nuovo ospite. Non tutti i virus che circolano negli altri animali sono capaci di infettare l'essere umano, questo perché la chiave (come ad esempio la proteina S dei coronavirus) e la serratura (i recettori sulle cellule umane) non corrispondono. Ma le mutazioni possono farle allineare dopo milioni di anni di selezioni e replicazioni, permettendo così il famigerato spillover (il salto di specie). È proprio grazie a una mutazione favorevole che il coronavirus SARS-CoV-2 è riuscito a saltare dai pipistrelli all'uomo, direttamente o indirettamente attraverso un ospite intermedio, probabilmente un pangolino.

Le mutazioni continuano a verificarsi costantemente, e per quanto concerne il SARS-CoV-2, come spiegato in un comunicato stampa dai ricercatori del (COG-UK), esso accumula 1-2 mutazioni al mese mentre si replica nelle persone contagiate. Pertanto, i genomi delle migliaia di varianti che circolano adesso “differiscono di circa 20 punti dai primi genomi sequenziati in Cina a gennaio”, ha specificato l'autorevole rivista scientifica Science, sottolineando comunque che "circolano anche molte varianti con meno modifiche". La variante inglese è peculiare proprio per il numero di mutazioni accumulate contemporaneamente, otto delle quali localizzate proprio sul gene della proteina S. Non c'è da stupirsi che nuove varianti continueranno a emergere in futuro, fin quando il coronavirus potrà replicarsi nell'uomo. La speranza è che si riesca ad abbatterlo con i vaccini prima che possa produrre mutazioni in grado di renderlo resistente, alle quali si dovrà rispondere con nuove preparazioni, un po' come avviene ogni anno contro i virus dell'influenza, noti per la notevole capacità mutante.

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