L’idrossiclorochina non previene l’infezione da coronavirus negli operatori sanitari
Ad oggi non esiste ancora una cura contro la COVID-19, l'infezione provocata dal coronavirus SARS-CoV-2, ma solo protocolli terapeutici con farmaci in “uso compassionevole” o “off label” (fuori etichetta, cioè pensati per altre malattie) in grado di contrastarne sintomi e complicazioni. Col passare dei mesi, tuttavia, diversi medicinali considerati promettenti sono “caduti” a seguito degli studi clinici; tra essi anche anche l'antivirale remdesivir, che in base ai risultati del Solidarity Trial coordinato dall’Organizzazione Mondiale di Sanità (OMS) non offrirebbe alcun beneficio nel prevenire la morte dei pazienti. Tra i farmaci più discussi nella lotta a questa pandemia vi è sicuramente l'idrossiclorochina, antimalarico di vecchio corso che è stato considerato efficace da alcune indagini e potenzialmente rischioso (a causa di effetti collaterali a livello cardiaco) e non utile da altre. Un nuovo studio ha appena dimostrato che l'idrossiclorochina non è efficace come trattamento per prevenire la COVID-19.
Il farmaco antimalarico, un derivato della clorochina meno tossico grazie a una modifica nella formula, è stato considerato potenzialmente utile anche per prevenire l'infezione da coronavirus, pertanto sono stati avviati degli studi randomizzati con placebo e in doppio cieco per verificarne le potenzialità. A determinare l'inefficacia preventiva è stato un team di ricerca internazionale guidato da scienziati della Facoltà di Medicina dell'Università del Minnesota, Stati Uniti, che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi dell'Health Centre and the Clinical Practice Assessment Unit presso il Dipartimento di Medicina dell'Università McGill, Canada. I ricercatori, coordinati dal professor Radha Rajasingham, infettivologo della U of M Medical School, sono giunti alle loro conclusioni dopo aver coinvolto circa 1.500 operatori sanitari e soccorritori in prima linea nell'emergenza coronavirus, quindi particolarmente esposti
Lo studio ha avuto inizio il 6 aprile, e i partecipanti sono stati suddivisi in tre gruppi casuali: il primo ha ricevuto una dose da 400 milligrammi di idrossiclorochina a settimana; il secondo due dosi di idrossiclorochina a settimana e il terzo un placebo. Lo studio è stato condotto in doppio cieco, cioè sia i partecipanti che i ricercatori non sapevano chi prendeva cosa. Il periodo di follow-up è durato da un minimo di un mese a un massimo di tre mesi. Dall'analisi statistica dei dati è emerso che il 7,9 percento di chi ha ricevuto il placebo ha sviluppato la COVID-19, contro il 5,9 percento di chi ha assunto l'idrossiclorochina. Una differenza del 2 percento è considerata statisticamente non significativa, pertanto Rajasingham e colleghi hanno stabilito che il farmaco non è efficace per l'uso preventivo.
Per quanto concerne gli effetti collaterali, sono stati osservati nel 21 percento dei partecipanti trattati con placebo; nel 31 percento del gruppo con idrossiclorochina a singola dose e nel 36 percento del gruppo a doppia dose. Tra i sintomi più comuni rilevati vi sono nausea e problemi gastrointestinali, come indicato in un comunicato stampa dell'ateneo americano. Non sono stati evidenziati problemi a livello cardiovascolare, che come detto sono stati più volte associati all'assunzione di idrossiclorochina (come ad esempio le aritmie). I dettagli dello studio “Hydroxychloroquine as pre-exposure prophylaxis for COVID-19 in healthcare workers: a randomized trial” sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Clinical Infectious Disiases.