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Perché l’agroecologia è la soluzione alla fame nel mondo

Oltre otto milioni di gruppi di agricoltori in tutto il mondo stanno sperimentando metodi di coltura sostenibili, osservando come queste pratiche stiano portando a un aumento della produttività e un miglioramento della gestione del territorio.
A cura di Valeria Aiello
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Evidenze sempre più schiaccianti, che arrivano dal mondo reale e riportate nella letteratura, indicano che la soluzione alla fame nel mondo risiede nell’agroecologia, un approccio che attraverso l’applicazione di principi di sostenibilità e gestione degli agrosistemi sta dando prova di poter portare a un aumento della produttività e soprattutto a un miglioramento della biodiversità nel territorio. Questo è stato osservato in ogni continente, indicando come gli agricoltori che adottano questa pratica abbiano una maggiore sicurezza alimentare, redditi più alti, una salute migliore e più bassi livelli di indebitamento.

Cos’è davvero l’agroecologia?

Ad oggi, indicano i dati, sono più di otto milioni i gruppi di agricoltori in tutto il mondo che stanno sperimentando l’agroecologia e toccando con mano come, rispetto all’agricoltura convenzionale, tale approccio sia in grado di assorbire più carbonio, utilizzare l’acqua in modo più oculato, ridurre la dipendenza da risorse esterne, riciclando nutrienti come azoto e fosforo, e promuovere (piuttosto che devastare) la biodiversità nel suolo e nelle aziende agricole.

Tuttavia – afferma su Scientific American il professor Raj Patel dell’Università del Texas ad Austin e membro dell’International Panel of Experts on Sustainable Food System – quando i responsabili politici parteciperanno al vertice sui sistemi alimentari delle Nazioni Unite nell’autunno 2021, le soluzioni sul tavolo per la fame nel mondo escluderanno l’agroecologia. Questo perché i sostenitori dell’agroecologia, come l’Alleanza per la sovranità alimentare in Africa, che rappresenta 200 milioni di produttori e consumatori di cibo, “hanno troppe poche risorse per incidere su un processo che zittisce sempre più le loro voci”. Tra gli sponsor del summit ci sarà invece la Gates Foundation che, prosegue Patel, supporta “un insieme di tecnologie modellate sulla Green Revolution, nonostante una grande quantità di prove del fallimento dell’Alleanza di Gates per una rivoluzione verde in Africa”.

La causa della fame nel mondo

La soluzione alla fame nel mondo, precisa l’esperto, richiede molto più che ottenere più cibo dalla terra, come mostrato dai dati dell’ultimo decennio che indicano come, in realtà, la produzione alimentare abbia ampiamente superato la domanda, per cui teoricamente ci sarebbe più cibo pro capite di quanto ce ne sia mai stato. Ma, a causa delle disuguaglianze globali e regionali, esacerbate dalla recente pandemia, i livelli di fame sono ora più alti che nel 2010.

In altre parole, le persone non hanno cibo non perché il cibo scarseggi ma perché non hanno la possibilità di accedervi per l’impostazione delle politiche agricole moderne, che hanno minato e distrutto le istituzioni sociali. In alcuni casi, ad esempio, le istituzioni statali sono state imposte agli agricoltori quale prezzo per ottenere varietà moderne, fertilizzanti e pesticidi, come in Malesia e Filippine. In altri casi, le istituzioni locali hanno invece perso potere, come le risorse di proprietà comune in India.

L’agroecologia, al contrario, libera gli agricoltori più poveri da tali strutture di controllo e sposta l’equilibrio di potere del sistema alimentare globale verso coloro che risiedono in fondo alla piramide socioeconomica. “Non c’è da stupirsi, quindi, che l’agroecologia sia impopolare tra le aziende agricole convenzionali, i governi del Nord del mondo e gli organizzatori di summit sui sistemi alimentari – prosegue Patel – . Il riconoscimento stesso la rende una minaccia”.

Il caso del Malawi

Eppure agroecologia significa prendersi cura non solo di tutti gli esseri umani ma anche degli ecosistemi da cui dipendiamo, trovando – ad esempio nel caso dei pesticidi – un modo per non sterminare i parassiti ma per raggiungere un equilibrio ecologico. “Gli agricoltori accettano una piccola perdita di raccolto mentre forniscono habitat ai predatori e introducono altre forme di controllo biologico per ottenere un ecosistema molto più robusto e resiliente” spiega l’esperto, riportando quanto accaduto nel Nord del Malawi, in Africa, dove la destinazione dei territori più ricchi alla coltivazione di colture da reddito per l’esportazione ha significato adeguamenti strutturali che hanno compromesso sostenibilità e equità delle strutture esistenti, trasformato l’Africa in un importatore di un quarto del suo cibo. “Tra il 2016 e il 2018 ha importato l’85% del suo cibo da fuori il continente, una dipendenza debilitante”.

I dati della Soils, Food and Healthy Communites (SFHC), l’iniziativa fondata nella piccola cittadina malawiana di Ekwendi nel 2000 a partire da 30 agricoltori per promuovere la agroeconomia, e che ora lavora con più di 6.000 persone in 200 villaggi, parlano invece da soli, a partire dal ripristino della biodiversità, come accade in ogni sistema agroecologico di successo. “Ci sono più insetti, anfibi, rettili, pesci, uccelli e mammiferi in questi paesaggi che negli aridi e verdi deserti delle moderne monoculture” fa presente Patel che, quanto al problema alimentare in sé,  non dimentica come la partecipazione al programma abbia avuto riscontri positivi nella popolazione, in particolare tra i bambini, “passati dall’essere sottopeso al superare la media per la loro età”. 

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