L’84% delle microplastiche deriva dalle strade: restano nell’atmosfera fino a una settimana
La diffusione ubiquitaria delle microplastiche è considerata una delle minacce più significative per l'ambiente e la nostra salute. Questi piccoli frammenti di rifiuti plastici (con diametro uguale o inferiore ai 5 millimetri) sono ormai entrati nella nostra catena alimentare e, secondo un recente studio condotto da scienziati dell'Università di Newcastle e del WWF, ogni settimana ne ingeriamo senza accorgercene ben 5 grammi. Ciò significa che ogni anno è come se mangiassimo un piatto di pasta da 250 grammi completamente di plastica, con un impatto sulla salute non ancora definito. Recentemente una ricerca dell’Università Statale dell’Arizona ha scoperto per la prima volta nanoplastiche e microplastiche in tessuti e organi umani, mentre i colleghi italiani dell’Ospedale Fatebenefratelli di Roma hanno individuato microplastiche all'interno della placenta. Si stima che ne piovano oltre mille tonnellate ogni anno sulle aree più remote degli Stati Uniti e sono state trovate ovunque, dai poli agli abissi. Siamo dunque letteralmente sommersi dalla plastica. Un nuovo studio ha ora dimostrato da dove proviene quella dispersa in atmosfera: la stragrande maggioranza di essa, ben l'84 percento, deriva dalle strade, dalla normale usura degli pneumatici e dal transito del traffico che la proietta in aria.
A determinare che la principale fonte di microplastiche sono le strade (e in particolar modo quelle extraurbane) è stato un team di ricerca internazionale guidato da scienziati dell'Università Statale dello Utah, che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi del Dipartimento di Scienze della Terra e dell'Atmosfera dell'Università Cornell, del Dipartimento di ricerca sul clima dell'Istituto Meteorologico Finlandese di Helsinki, del Pacific Northwest National Laboratory, della Scuola di specializzazione in studi ambientali dell'Università di Nagoya (Giappone) e di altri centri di ricerca sparsi per il mondo. Gli scienziati, coordinati dalla professoressa Janice Brahney, docente presso il Dipartimento di Watershed Sciences dell'ateneo di Logan, sono giunti alle loro conclusioni dopo aver raccolto centinaia di campioni di microplastiche da 11 siti degli Stati Uniti occidentali, tra dicembre 2017 e gennaio 2019.
Dall'analisi dei campioni, come indicato, è stato determinato che la maggior parte di essi deriva dalle strade e dalla normale usura degli pneumatici. Verrebbe da pensare che le trafficatissime strade urbane siano la principale fonte di queste microplastiche, ma come spiegato dagli autori dello studio sono invece quelle extraurbane. Per due ragioni. La prima è che nelle strade urbane le auto vanno generalmente più piano, dunque le turbolenze prodotte dal moto spesso non sono sufficienti a far sollevare verso l'atmosfera superiore i frammenti che si staccano dalle ruote. In secondo luogo i palazzi ostacolano sia queste turbolenze che i venti, trattenendo in loco le microplastiche. Sulle grandi arterie che collegano le città e le autostrade, dove i veicoli si muovono ad alta velocità mentre il vento li colpisce in pieno, le microplastiche vengono facilmente sollevate e proiettate in aria, dove entrano nei cicli atmosferici.
Un altro 11 percento delle microplastiche, spiegano Brahney e colleghi, deriva dal moto ondoso e dagli spruzzi del mare, che ormai è saturo di microplastiche. I minuscoli frammenti – derivati dalla distruzione di grandi rifiuti – raggiungono la superficie e, quando le onde si infrangono sugli scogli o quando vengono agitate dal vento, fanno sollevare le microplastiche, che giungono nell'atmosfera e vengono trasportate ovunque. Il 5 percento deriva dai suoli agricoli, mentre un ultimo 0,4 percento ha altre fonti umane. Gli scienziati hanno inserito questi dati in un sofisticato modello matematico, grazie al quale è stato determinato che le microplastiche possono rimanere in atmosfera da poche ore fino a una settimana. È un tempo più che sufficiente per permettere il trasporto attraverso il vento verso altre regioni, altri stati e in alcuni casi anche altri continenti. È così che sono stati contaminati l'Artico e l'Antartico, dove naturalmente non vi è emissione diretta di microplastiche.
Dall'inizio del ‘900 abbiamo prodotto 10 miliardi di tonnellate di plastica e per gli scienziati è fondamentale capire dove va a finire tutta quella che viene dispersa (soprattutto in mare) e trasformata in microplastiche, comprendere qual è il suo impatto nei diversi ecosistemi e in definitiva anche sulla nostra salute. I dettagli della ricerca “Constraining the atmospheric limb of the plastic cycle” sono stati pubblicati sulla rivista scientifica PNAS.