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Covid 19

Danni polmonari e stress post traumatico: come stanno i pazienti COVID dimessi da 4 mesi

Analizzando le condizioni di salute di pazienti covid ricoverati in gravi condizioni in ospedale e poi dimessi, un team di ricerca italiano ha dimostrato che a 4 mesi di distanza dal superamento della fase acuta virale sono presenti ancora sintomi seri, come compromissione delle capacità respiratorie e stress post traumatico.
A cura di Andrea Centini
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La COVID-19, l'infezione provocata dal coronavirus SARS-CoV-2, è una patologia non ancora del tutto compresa, ma è ormai chiaro agli esperti che nei pazienti che contraggono la forma severa spesso alcuni sintomi significativi durano a lungo, risultando rilevabili anche a mesi di distanza dal superamento della fase virale acuta. Gli scienziati chiamano questo insieme di condizioni “Long COVID” o “sindrome della COVID-19 a lungo termine”, tra le quali le più diffuse sono l'affaticamento, l'astenia, i disturbi cognitivi come la “nebbia cerebrale” e i dolori muscolari. Secondo lo studio “Characterizing Long COVID in an International Cohort: 7 Months of Symptoms and Their Impact” guidato da scienziati dello University College London, in molti casi questi sintomi sono presenti anche a sette mesi di distanza dal contagio. Una nuova ricerca italiana mostra che sono comuni anche serie problematiche respiratorie a quattro mesi dalle dimissioni, e sono diffusi anche i segnali da stress post-traumatico.

A condurre l'indagine italiana un team di ricerca dell'Università del Piemonte Orientale e dell'Azienda Ospedaliero – Universitaria Maggiore della Carità di Novara, coordinato dal professor Mattia Bellan del Dipartimento di Medicina Traslazionale. Gli scienziati hanno condotto uno studio prospettico di coorte coinvolgendo pazienti con un'età superiore ai 18 anni e contagiati dal coronavirus SARS-CoV-2, tutti con diagnosi confermata attraverso il test della reazione a catena della polimerasi inversa (RT-PCR, l'esame di laboratorio che si conduce sui campioni biologici prelevati con i tamponi oro-rinofaringei); tampone bronchiale; test sierologici e tomografia computerizzata. I pazienti coinvolti erano tutti definiti gravi e sono stati ricoverati in ospedale tra il primo marzo e il 29 giugno dello scorso anno.

Dei circa 800 pazienti ospedalizzati che sono stati contattati per partecipare allo studio, in quasi 500 (il 64,4 percento) hanno rifiutato il coinvolgimento dell'indagine, mentre in 35 (il 4,6 percento) ha perso la vita a causa dell'infezione durante il periodo di follow-up. Come si legge nell'abstract dello studio, hanno deciso di aderire alla ricerca in 238 (31 percento), circa il 60 percento dei quali uomini con un'età media di sessantuno anni e in media con due patologie pregresse. Com'è noto il sesso maschile, l'età avanzata e la presenza di più patologie preesistenti (comorbilità) sono considerati fattori di rischio per le complicazioni della COVID-19, dunque non c'è da stupirsi che la maggior parte dei pazienti gravi coinvolti nello studio avesse queste caratteristiche. Di tutti i partecipanti allo studio solo in 219 erano in grado di completare i test di verifica per la funzionalità polmonare, che è risultata seriamente compromessa in moltissimi pazienti. Come specificato da Bellan e colleghi nell'abstract dello studio, è stato valutata la capacità di diffusione del monossido di carbonio (DLCO), che è “una misura della capacità dei gas di passare dagli alveoli attraverso l'epitelio alveolare e l'endotelio capillare ai globuli rossi”, come spiegato dagli autorevoli manuali MSD per operatori sanitari. Il DLCO è risultato ridotto “a meno dell'80 percento del valore stimato in 113 pazienti (51,6 percento) e meno del 60 percento in 34 pazienti (15,5 percento)”, mostrando così una sensibile compromissione delle capacità respiratorie.

I ricercatori italiani hanno osservato anche una mobilità limitata nel 22,3 percento dei pazienti, mentre il 40,5 di coloro che sono stati sottoposti al test del cammino di 2 minuti hanno mostrato valori inferiori rispetto alle prestazioni attese per età e sesso. Dall'analisi statistica è stato quindi evidenziato che un totale di 128 pazienti (il 53,8 percento del campione) presentava un danno funzionale a quattro mesi di distanza dal contagio. I sintomi dello stress post-traumatico sono invece stati evidenziati nel 17,2 percento, quindi in circa uno su sei. “Questi risultati suggeriscono che a quattro mesi dalle dimissioni, strascichi respiratori, fisici e psicologici erano comuni tra i pazienti che erano stati ospedalizzati per COVID-19”, concludono gli scienziati nell'abstract dello studio. I dettagli della ricerca “Respiratory and Psychophysical Sequelae Among Patients With COVID-19 Four Months After Hospital Discharge” sono stati pubblicati sulla rivista scientifica JAMA Network Open.

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