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Cosa dice l’accordo finale della COP26 e perché non ci salverà dalla catastrofe climatica

Sabato 13 novembre è stato raggiunto l’accordo finale della COP26. Ecco cosa dice e perché non è sufficiente a salvarci dalla catastrofe climatica che incombe.
A cura di Andrea Centini
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A Glasgow, in Scozia, sabato 13 novembre si sono conclusi i negoziati della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP26), portando a un accordo finale che è stato bollato senza mezzi termini come "clamoroso fallimento" ed ennesimo "bla bla bla" sia da parte degli attivisti che da parte dei rappresentati di diversi Paesi, nonostante alcuni risultati positivi portati a casa. Doveva essere infatti trovato trovato un valido compromesso tra le istanze dei vari attori in gioco: le nazioni in via di sviluppo, che sono le principali vittime del riscaldamento globale innescato dagli altri; quelle che producono combustibili fossili e si sostengono grazie ad essi, come ad esempio l'Arabia Saudita; e quelle ricche, che devono impegnarsi nel drastico e repentino abbattimento delle emissioni, oltre che nell'aiuto concreto ai più deboli. L'accordo finale, tuttavia, risulta decisamente più annacquato rispetto a quello delle bozze precedenti, che sono andate via via "ammorbidendosi" con l'aggiunta di terminologia più sfumata, proprio per venire incontro ai Paesi ancora fortemente legati  e interessati ai combustibili fossili. Particolarmente significativo è stato il ruolo dell'India e della Cina, che proprio all'ultimo hanno reso l'accordo inefficace nel rispondere alla necessità di una drastica e immediata riduzione delle emissioni di anidride carbonica e altri gas a effetto serra. Tale modifica ha persino fatto commuovere il presidente della COP26, Alok Sharma.

Di fatto, non è stato messo sul tavolo un impegno concreto sui cosiddetti “contributi determinati a livello nazionale” o NDC, in parole semplici, la riduzione delle emissioni nocive a breve termine (entro il 2030), un passaggio fondamentale per evitare di superare 1,5° C di riscaldamento rispetto all'epoca preindustriale. Quasi nessuno ha ritoccato i propri NDC e se ne ridiscuterà alla COP27, che si terrà nel 2022 in Egitto. Paradossalmente, viene considerato un successo il fatto di aver incluso per la prima volta nell'accordo di una COP la necessità di dover ridurre i combustibili fossili, ma senza impegni netti e precisi da parte dei Paesi. Si è almeno deciso che i rappresentanti dovranno obbligatoriamente incontrarsi il prossimo anno per ridiscutere dei piani nazionali per la riduzione delle emissioni. È un contentino, perché proprio a Glasgow si sarebbero dovute prendere quelle decisioni radicali per combattere i cambiamenti climatici, dimostrare la seria volontà di agire immediatamente. E invece si è deciso di rimandare per l'ennesima volta. Ma non c'è più tempo, come dimostra l'incessante ticchettio del Climate Clock. Restano in alto mare anche i negoziati sui finanziamenti ai Paesi in via di sviluppo, che come evidenziato sono quelli che più di tutti subiscono le conseguenze del riscaldamento globale, pur non essendone i diretti responsabili. Le nazioni ricche avrebbero dovuto versare a questi Paesi 100 miliardi di dollari all'anno a partire dal 2020, per aiutarli a contrastare le conseguenze del cambiamento climatico, tuttavia non è stato fatto e ciò è serio motivo di attrito fra le parti. Non a caso la cosiddetta "giustizia climatica", che prevede risarcimenti per le vittime del nostro benessere, è al centro della protesta degli attivisti guidati da Greta Thunberg, Vanessa Nakate e altri giovani ambientalisti.

Come indicato, nell'accordo finale vi è stato un ammorbidimento della terminologia in diversi passaggi, che agevoleranno i Paesi che non vogliono ancora abbandonare i combustibili fossili. Per fare un esempio pratico, nella prima bozza i Paesi erano invitati ad “accelerare la graduale eliminazione del carbone e dei sussidi per i combustibili fossili”; nella seconda bozza si invitavano i Paesi ad “accelerare l'eliminazione graduale dell'energia basata sul carbone senza sosta e i sussidi inefficienti per i combustibili fossili”; ora, nell'ultimo documento, si indica la sola necessità di ridurre gradualmente i combustibili fossili. È una differenza sostanziale, a maggior ragione se si considera che nulla è stato fatto per la riduzione delle emissioni a breve termine. Anche se (incredibilmente) è la prima volta che nell'accordo di una COP si fa riferimento alla riduzione progressiva dei combustibili fossili, potranno continuare i finanziamenti alla loro produzione, senza obblighi in termini di compensazione attraverso le energie rinnovabili. Il rischio concreto è che i Paesi meno intenzionati a perseguire – almeno nel breve periodo – una vera politica climatica, possano sfruttare a proprio vantaggio questo accordo per continuare a inquinare. Non a caso le sfumature nella terminologia sono state aggiunte proprio sotto la pressione dei più intransigenti, come appunto Cina e India. Un'altra frase sibillina è relativa al fatto che l'aggiornamento degli impegni climatici dovrebbe tenere conto delle “diverse circostanze nazionali”; anche in questo caso i Paesi inquinanti si sentiranno ancora in diritto di poter utilizzare liberamente i combustibili fossili.

Resta spinosa la questione dei finanziamenti ai Paesi in via di sviluppo, più esposti all'innalzamento del livello del mare, ad alluvioni, siccità e altre calamità naturali catalizzate dai cambiamenti climatici (che le rende più intense e frequenti). Come indicato avrebbero dovuto ricevere 100 miliardi di dollari entro il 2020, ma ciò non è avvenuto. Secondo l'OCSE si è arrivati al massimo a poco meno di 90, una differenza sostanziale che potrebbe essere coperta nel giro di un paio di anni. Se nella prima bozza si chiedeva di erogare questi 100 miliardi di dollari all'anno entro il 2023, adesso è stato deciso lo stanziamento di un fondo da 500 miliardi di dollari che andrà versato in 5 anni. Ma si deciderà solo in un secondo momento su dove trovare questi soldi. Le nazioni in via di sviluppo chiedono fondi ai più ricchi – responsabili delle emissioni storiche – non solo per difendersi attivamente dalle conseguenze del riscaldamento globale, ma anche per trasformare i propri sistemi economici affinché diventino sostenibili. In pratica, per passare alle energie rinnovabili le infrastrutture e le economie legate combustibili fossili. L'India, che oggi è tra i principali inquinatori, ha chiesto l'enorme cifra di mille miliardi di dollari per abbandonare i combustibili fossili e poter crescere grazie alle fonti rinnovabili.

Nell'accordo finale della COP26 resta sullo sfondo lo stesso obiettivo più virtuoso degli Accordi di Parigi del 2015, ovvero quello di contenere l'aumento della temperatura media entro 1,5° C rispetto all'epoca preindustriale, il limite indicato dagli scienziati per evitare le conseguenze irreversibili e più catastrofiche dei cambiamenti climatici. Per farlo è necessario abbattere le emissioni di gas a effetto serra del 45 percento entro il 2030 e raggiungere la neutralità carbonica (emissioni zero nette) entro la metà del secolo. Per la seconda parte c'è un impegno significativo da parte di molti Paesi, come UE e Stati Uniti, mentre Cina e Russia puntano al 2060 e l'India al 2070. La prima, fondamentale, è legata ai contributi determinati a livello nazionale o NDC, ma come indicato, non è stato trovato un accordo in tal senso e tutto è stato rimandato al 2022. Il problema è che con gli attuali NCD, secondo il nuovo rapporto di Climate Action Tracker, non solo supereremo la soglia di 1,5° C nel giro di dieci anni, ma entro il 2100 rischiamo di arrivare a un riscaldamento di 2,4° – 2,7° C, con conseguenze catastrofiche sull'umanità intera, la biodiversità e l'ambiente. Non c'è da stupirsi che molte organizzazioni ambientaliste abbiano trovato assai deludente, "lontano dalla perfezione" e "privo di coraggio" il documento finale della COP26. Friends of the Earth (FoE), ad esempio, ha sottolineato che sono stati "riciclati annunci propagandistici" che già in precedenza erano stati disattesi, con un divario enorme tra impegni reali presi e quelli necessari per contenere il riscaldamento globale. Molto deluse anche le delegazioni dei Paesi più a rischio, come quelli delle isole oceaniche. "È un passo avanti ma non in linea con i progressi necessari. Sarà troppo tardi per le Maldive. Questo accordo non porta speranza nei nostri cuori", ha dichiarato il principale negoziatore delle Maldive dopo la pubblicazione del documento finale. In definitiva, non aver preso adesso decisione nette contro le emissioni di gas a effetto serra rischia di far tramontare definitivamente l'obiettivo di contenere l'aumento della temperatura entro 1,5° C; ciò nonostante, si continua ad esultare del fatto che grazie al nuovo documento tale obiettivo "resta vivo" e che inoltre il carbone è stato "condannato a morte", come sottolineato da Boris Johnson.

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