Coronavirus in Lombardia, esperto: “Possibili focolai non visti, nascosti dall’influenza”
Il nuovo coronavirus emerso in Cina (SARS-CoV-2) è “sbarcato” anche in Italia. Se fino ad oggi i ricoverati all'Ospedale Spallanzani di Roma (la coppia cinese e un ricercatore italiano) l'avevano contratto nel Paese asiatico, i tre nuovi casi di contagio – un 38enne di Codogno, la moglie incinta e un amico stretto – si sono verificati sul suolo nazionale, in Lombardia. I tre, infatti, non sono mai stati in Cina, ma l'uomo, ricoverato in gravi condizioni all'ospedale di Codogno, si era visto all'inizio di febbraio con un amico cinese (asintomatico) rientrato dalla sua terra d'origine. Forse ha incontrato altre persone tornate dall'Asia o che avevano avuto contatti con chi c'era stato. L'incontro si è verificato una ventina di giorni prima del ricovero, quindi oltre il periodo d'incubazione del patogeno, che dovrebbe durare al massimo 14 giorni. Per comprendere meglio come sia stato possibile il contagio e quali sono i rischi dei primi casi in Italia abbiamo intervistato il professor Fabrizio Pregliasco, virologo presso il Dipartimento Scienze biomediche per la salute dell’Università degli Studi di Milano, Vice Presidente Nazionale dell’A.N.P.A.S. (Associazione Nazionale Pubbliche Assistenze) e Direttore Sanitario della Casa di Cura Ambrosiana SRL di Cesano Boscone.
Professor Pregliasco, alla fine il coronavirus è sbarcato anche in Italia. Cosa ne pensa?
Il caso italiano inizia a far pesare la problematica anche nel nostro Paese. Diciamo che è una situazione che ci si aspettava, perché come si è visto dei soggetti che sono arrivati da Wuhan sono “sfuggiti” alle maglie del controllo. Ma questo è naturale. Quell'azione che si è fatta (il blocco dei voli NDR) ha cercato di limitare questa possibilità, il numero di contatti. Ovviamente i viaggi bloccati erano quelli diretti; tutti quelli indiretti sono stati possibili. È possibile che ci siano dei piccoli focolai non visti, nascosti dall'influenza, che coinvolgono persone arrivate dalla Cina nel primo momento, nella finestra in cui non è stata fatta la segnalazione. Quindi questi inconsapevoli sono arrivati e magari hanno infettato qualcun altro. Stiamo purtroppo vedendo che questo virus, conoscendolo meglio, può essere diffuso anche da soggetti con una sintomatologia banale o quasi nessuna sintomatologia, quindi questi piccoli focolai li dobbiamo considerare. Magari ne verranno fuori anche altri.
Il ragazzo avrebbe incontrato un suo amico senza sintomi rientrato dalla Cina alla fine di gennaio/inizio di febbraio. Possibile che sia stato lui a infettarlo?
Non è ancora così chiaro, in realtà. Sentivo Giulio Gallera (l'assessore al Welfare della Lombardia NDR) – ero in trasmissione con lui pochi minuti fa – e stanno ancora individuando chi può essere stato il caso indice. Perché il contagiato ha avuto diversi contatti con dei cinesi, quindi si tratta di stabilire la catena e capire chi è stato davvero a passarglielo. Può darsi che magari qualcuno che è stato in Cina ha incontrato questo amico cinese o magari una persona che è stata in Cina e ha incontrato altri che sono entrati in contatto con lui. Insomma, una catena di Sant'Antonio. Lui non è stato il primo ad aver avuto questa sfortuna. Magari c'è un micro-focolaio, con più soggetti, e lui potrebbe essere il secondo o il terzo di una catena, appunto.
L'incubazione massima del virus dovrebbe essere di 14 giorni, ma ne sono passati di più da quell'incontro. Come potrebbe averlo potuto contagiare?
Probabilmente era già malato da prima ed è peggiorato in un secondo momento. Ha cominciato con una sintomatologia banale, che sembrava un'influenza, un raffreddore, e adesso purtroppo è diventato grave. Quindi sì, potrebbe essere stato anche questo ragazzo a contagiarlo. Lui è peggiorato e la clinica ci ha messo un po' a farsi vedere.
Quindi ci conferma che un contagio da asintomatici è possibile
È possibile, è possibile. Con minore efficacia, minore probabilità, ma è comunque possibile.
Alla luce di ciò che è successo ritiene che in Lombardia possa emergere un focolaio?
In Germania, in Francia e anche in Inghilterra è successo che c'è stato magari l'esempio di un super-spreader (come l'uomo d'affari britannico Steven Walsh NDR) che è stato a Shanghai, poi è andato in vacanza in Francia in uno chalet e ha infettato altre tre persone, poi è andato nel pub dove vive e ne ha infettati altre due, poi anche il medico che l'ha visitato. In tutto possono essere una decina di persone. Quindi è possibile che questo caso metta in evidenza quello che noi chiamiamo un cluster, un piccolo focolaio. Questa situazione evidenzia come dobbiamo attrezzarci e utilizzare e aggiornare dei piani pandemici, cioè quegli aspetti organizzativi che già a livello italiano – per tutte le singole ASL – si possedevano per l'influenza aviaria, per l'H1N1, e che devono essere “ripresi dai cassetti” e considerati per far fronte a questa situazione ulteriore.
Cosa ci può dire della trasmissibilità attraverso le superfici? Secondo l'OMS studi preliminari indicano una possibile sopravvivenza del coronavirus di poche ore, mentre un recente studio tedesco sui coronavirus (generico) ha osservato una sopravvivenza fino a nove giorni.
I coronavirus in generale hanno questa situazione di rischio, o meglio, di possibilità di sopravvivenza a seconda delle condizioni ambientali. Se ci sono alta umidità, bassa temperatura, insomma, non è così facile. Quello tedesco è un lavoro di revisione scientifica di 22 lavori fatti nel tempo sui coronavirus in generale, non su questo nuovo. Si evidenzia che una carica virale può resistere per nove giorni in base a condizioni favorenti, ma ovviamente la carica virale si riduce. Mi viene in mente l'HIV; il professor Aiuti a suo tempo baciò in diretta TV una giovane sieropositiva (Rosaria Iardino NDR), nell'ottica di dire che è vero, il soggetto HIV ha dei virus addirittura nella saliva, nelle lacrime e nel sudore, ma non in una concentrazione virale sufficiente affinché l'infezione sia efficace. Non è che ogni contatto determina la malattia, proprio perché ci vuole una carica infettante adeguata. Il consiglio è sempre quello di lavarsi le mani.
Ricercatori americani hanno messo a punto la “mappa 3D” del coronavirus, la struttura molecolare delle cosiddette “spike”. Quanto ci avvicina a un vaccino?
Il problema del vaccino è che va provato in vitro su modello animale e testato. Normalmente per registrare un vaccino ci vogliono delle prove su 20-30.000 soggetti con tempi che sono di anni. Questi test sono necessari per verificare innanzitutto la sicurezza. Non è che si può produrre un vaccino non sicuro. Già successe nel 1977, con l'emersione di una variante di H1N1 negli Stati Uniti; il presidente Ford obbligò i militari a vaccinarsi per far fronte a questa variante. Ci sono dei problemi ancora adesso, delle contestazioni legali a fronte dell'obbligo di una vaccinazione coatta, decisa per una malattia banale come questa che è un'influenza. Una cosa diversa è l'Ebola, una malattia grave, per la quale ovviamente si può rischiare di più.