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Covid 19

Bile di orso per trattare il coronavirus, l’assurda raccomandazione della Cina

Nella settima revisione del documento “Diagnosi e terapia della nuova polmonite da coronavirus”, un elenco di trattamenti indicati per la COVID-19 dalla Commissione Sanitaria Nazionale Cinese, ha trovato posto anche il Tan Re Qing. Si tratta di un preparato della medicina tradizionale cinese a base di bile di orso. Ecco perché si tratta di una assurdità.
A cura di Andrea Centini
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Per trattare i pazienti gravi e critici colpiti dalla COVID-19, l'infezione scatenata dal coronavirus SARS-CoV-2, le autorità sanitarie cinesi "raccomandano" le iniezioni del farmaco Tan Re Qing, il cui principio attivo è la bile estratta dagli orsi. A scovare l'approvazione dell'inquietante trattamento è stata la Environmental Investigation Agency (EIA), una ONG con sede a Londra impegnata da decenni nella tutela e nella conservazione della natura. La notizia, riportata anche dalla pagina internazionale del National Geographic, è suffragata dalla settima revisione del documento “Diagnosi e terapia della nuova polmonite da coronavirus”, pubblicato dalla Commissione Sanitaria Nazionale Cinese (NHC) e citato dall'agenzia di stampa governativa Xinhua. Al suo interno si trova un elenco aggiornato con i trattamenti e le terapie raccomandati per fronteggiare l'emergenza coronavirus, nel quale trova spazio anche il famigerato Tan Re Qing.

La bile, un liquido di supporto alla digestione prodotto dal fegato e immagazzinato nella cistifellea, in Asia viene estratta dagli orsi da secoli, ed è considerata uno degli ingredienti più “apprezzati” nella medicina tradizionale, benché sia impiegata anche per prodotti commerciali quali bevande e cosmetici. In passato veniva estratta dagli orsi uccisi durante la caccia, ma da quando le specie sono diventate protette gli allevatori hanno avviato delle terrificanti “fattorie della bile”, nelle quali gli orsi vengono rinchiusi in gabbie anguste e sottoposti a indicibili sofferenze per l'estrazione del liquido. In parole semplici, si applicano dei cateteri intestinali collegati a rubinetti, che lasciano fluire la bile prodotta dal fegato in appositi recipienti. Gli orsi, e in particolar modo l'orso tibetano o orso dal collare/della luna (Ursus thibetanus), spesso vengono imprigionati per il resto della loro vita (20-25 anni), senza potersi nemmeno muovere, sperimentando dolori lancinanti e impazzendo a causa della tortura perpetua. A rendere ancor più agghiacciante la situazione, il fatto che oltre alla presenza di allevamenti legali e autorizzati, nei Paesi asiatici (come in Vietnam) fioccano anche quelli illegali, dove le condizioni dei plantigradi sono ancora più estreme. In questi luoghi spesso vengono amputate anche le zampe per farne una bevanda alcolica, come mostra la storia dell'esemplare femmina di orso tibetano Hai Chan, liberato nel 2017 dagli attivisti di Four Paws.

Il principio attivo alla base della bile di orso (e del farmaco Tan Re Qing da essa derivato) è l'acido ursodesossicolico (o ursodiolo), del quale è stata verificata la capacità di trattare calcoli biliari e altre malattie del fegato, come specificato dal National Geographic. Il professor Clifford Steer, docente dell'Università del Minnesota di Minneapolis, ha dichiarato al giornale di non essere a conoscenza di eventuali benefici specifici per il trattamento della COVID-19, tuttavia suggerisce che le proprietà antiinfiammatorie e di attenuazione della risposta immunitaria (come del resto fa il farmaco Tocilizumab per l'artrite reumatoide) potrebbe avere degli effetti.

Ammesso che l'acido ursodesossicolico sia davvero utile contro la COVID-19, ne esiste una versione sintetica prodotta nei laboratori da anni, dunque non ci sarebbe alcuna necessità di torturare gli orsi per ottenerlo. Inoltre, bloccare i terrificanti mercati di animali vivi (dove tra il 20 e il 25 novembre del 2019 è avvenuto lo spillover, il salto di specie da animale all'uomo del coronavirus) per scopi alimentari ma mantenere in vita attività anacronistiche come le “fabbriche di bile” è un vero e proprio controsenso. Anche se gli orsi sottoposti al “trattamento” sono allevati in cattività e non selvatici: il nocciolo della questione non cambia. Forse non è ancora chiaro a tutti che il virus è emerso proprio a causa del modo atroce in cui trattiamo e manipoliamo gli animali, della distruzione costante del loro habitat e dello sfruttamento intensivo del patrimonio naturale. Tutto ciò ha permesso al coronavirus di avvicinarsi a noi, di adattarsi alle nostre cellule tramite mutazioni casuali e infine di approfittarne alla prima occasione utile. Il "salto" potrebbe essersi verificato direttamente da un pipistrello, dove i coronavirus circolano naturalmente, o magari attraverso un pangolino, considerata la specie serbatoio più papabile. Anche questi animali venivano sfruttati e macellati in mercati come quello di Wuhan.

“In questo momento storico – spiega l'Environmental Investigation Agency – mentre il mondo è paralizzato dalla pandemia di coronavirus, i rischi per la salute pubblica e ambientali del commercio di animali selvatici stanno giustamente ricevendo un'attenzione senza precedenti. Non potrebbe esserci un momento migliore per porre fine all'uso di parti di animali selvatici minacciati nella medicina tradizionale”. La speranza è che gli appelli vengano ascoltati e si metta la parola fine a questo cortocircuito di atrocità, responsabile del dramma che stiamo vivendo da mesi. Ne trarremmo enorme beneficio sia noi che gli altri animali.

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