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Animali infettati dal coronavirus: perché gli scienziati sono preoccupati

Un recente studio guidato da scienziati dell’Università della California ha dimostrato che oltre 400 specie di vertebrati sono suscettibili all’infezione da coronavirus SARS-CoV-2. Circolando in altri animali e tornando all’uomo, il patogeno emerso in Cina potrebbe accumulare mutazioni potenzialmente pericolose, come quelle osservate in alcuni allevatori contagiati dai visoni. Ad oggi è l’unico animale per il quale è stata dimostrata la capacità di infettare l’uomo.
A cura di Andrea Centini
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La COVID-19, l'infezione provocata dal coronavirus SARS-CoV-2, fa parte delle cosiddette zoonosi, cioè delle malattie infettive che possono essere trasmesse dagli animali all'uomo. Si ritiene che il salto di specie (o spillover) del patogeno sia avvenuto in Cina negli ultimi mesi dello scorso anno, dando vita alla pandemia che ha messo il mondo in ginocchio intero. Il virus in origine circolava nei pipistrelli, noti portatori di un gran numero di coronavirus, ma gli scienziati ritengono sia passato a noi attraverso un specie “serbatoio” intermedia. Probabilmente il pangolino, un mammifero minacciato di estinzione poiché cacciato per la carne e soprattutto le squame, tra gli "ingredienti" più ricercati al mercato nero legato alla medicina tradizionale asiatica. Non è inverosimile credere che il primo a essere stato contagiato dal coronavirus sia stato un bracconiere mentre uccideva uno di questi sfortunati animali, o magari un mercante o un cliente dei famigerati “mercati umidi” in cui i pangolini vengono venduti illegalmente.

Il virus è dunque passato da un animale all'uomo, ma può fare benissimo anche il percorso inverso, come hanno dimostrato i molteplici studi condotti negli ultimi mesi in tutto il mondo. Dopo l'annuncio dei primi cani e gatti contagiati dai proprietari con COVID-19, è stato osservato che il coronavirus è stato trasmesso anche a tigri e leoni dai custodi di uno zoo di New York, ai furetti, a topi geneticamente modificati e visoni. Quest'ultima specie è una di quelle che preoccupa maggiormente gli esperti, per il semplice motivo che si tratta della prima in cui è stata osservata l'infezione di ritorno. In parole semplici, visoni contagiati dall'uomo hanno infettato altri visoni che a loro volta hanno contagiato altri uomini. È accaduto in alcuni allevamenti della Danimarca. Fortunatamente questa variante virale – diagnosticata in 12 persone – non è risultata più trasmissibile e letale di quelle che circolano normalmente tra le persone, ma esami di laboratorio hanno dimostrato una minore reattività agli anticorpi. Alla luce di questo risultato, le autorità sanitarie danesi hanno deciso di uccidere tutti i visoni degli allevamenti nazionali, oltre 15 milioni di animali. C'è infatti il rischio che circolando nei visoni, il coronavirus possa accumulare mutazioni che, una volta ripassate all'uomo, possano rendere inefficaci i vaccini candidati in sperimentazione. Per questa ragione si è deciso di abbattere tutti gli sfortunati visoni, già condannati a una vita di inferno per alimentare il mercato delle pellicce.

Come specificato, i visoni ad oggi sono gli unici animali per i quali è stata dimostrata la capacità di poter reinfettare l'uomo; per cani, gatti e altre specie non ci sono evidenze scientifiche. Ma il rischio che altri animali possano trasformarsi in serbatoi potenzialmente pericolosi non è trascurabile, secondo alcuni esperti. Il recente studio “Broad host range of SARS-CoV-2 predicted by comparative and structural analysis of ACE2 in vertebrates” pubblicato sull'autorevole rivista scientifica PNAS da un team di ricerca internazionale, ha dimostrato che ben 410 specie di vertebrati sono potenzialmente suscettibili all'infezione. I ricercatori coordinati dalla professoressa Joana Damas del The Genome Center presso l'Università della California hanno sequenziato il genoma di moltissime specie, scoprendo che diverse presentano sequenze di amminoacidi nel recettore ACE-2 (quello cui si lega la proteina Spike del coronavirus) analoghe a quelle umane. Hanno così messo a punto una scala di rischio, determinando che le grandi scimmie come gorilla, scimpanzé e bonobo sono tra gli animali che hanno maggiori probabilità di infettarsi.

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È noto che gli scimpanzé sono fortemente suscettibili ai virus respiratori umani, e bastano anche quelli responsabili del comune raffreddore per ucciderli. Per questa ragione chi studia questi animali nelle riserve naturali mantiene sempre una distanza di sicurezza. Da quando si è diffuso il coronavirus SARS-CoV-2 le misure sono state ulteriormente inasprite; come specificato al New York Times dal dottor Zarin Machanda della Tufts University, che studia il comportamento degli scimpanzé presso il Kibale Chimpanzee Project in Uganda, la distanza dagli animali è stata raddoppiata. Il rischio COVID-19 è sia diretto verso questi animali, dato che alcuni sono fortemente minacciati di estinzione, che indiretto per l'uomo, dato che il coronavirus all'interno di essi potrebbe mutare in forma più pericolosa e tornare alla nostra specie più aggressivo. Fortunatamente un recente studio condotto dalla Cummings School of Veterinary Medicine della Tufts University ha rilevato che centinaia di animali selvatici testati per il coronavirus sono risultati negativi. Ciò suggerisce che il problema continui a restare fondamentalmente umano, e la speranza è che continui a restarlo fin quando non sarà distribuito un vaccino in grado di eradicare il patogeno.

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