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Covid 19

Scoperte 8 varianti genetiche associate alla forma grave della COVID: speranze per cura

Mettendo a confronto il profilo genetico di oltre 2mila pazienti ricoverati con la forma critica della COVID-19 con quelli di persone non infettate, un team di ricerca internazionale guidato da scienziati dell’Università di Edimburgo (Scozia) ha scoperto otto varianti genetiche più comuni del primo gruppo. Alcune possono essere contrastate con farmaci già disponibili per altre patologie.
A cura di Andrea Centini
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Credit: geralt
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La COVID-19, l'infezione provocata dal coronavirus SARS-CoV-2, è una nuova malattia della quale non sono ancora note tutte le caratteristiche. Ad esempio, sappiamo che le persone anziane (soprattutto se di sesso maschile) e quelle con comorbilità, cioè malattie preesistenti alla stregua del diabete e dell'ipertensione, sono a maggior rischio di sviluppare la forma severa – e potenzialmente fatale – della patologia, ma in alcuni casi muoiono anche giovani e giovanissimi in perfetta salute. Com'è possibile? Una risposta plausibile (perlomeno parziale) arriva da un nuovo studio, che ha individuato alcune varianti genetiche che risultano più comuni nei pazienti ricoverati per COVID-19 critica. In altri termini, alla base dei rischi maggiori potrebbe esserci una condizione genetica che favorisce l'aggressione del patogeno.

A scoprire le varianti genetiche è stato un copioso team di ricerca internazionale guidato da scienziati dell'Università e dell'Ospedale Generale Occidentale di Edimburgo (Regno Unito), che hanno collaborato con i colleghi del Dipartimento di Scienze Veterinarie ed Ecologiche dell'Università di Liverpool, della sezione di Genetica Medica dell'Università di Siena, dell'Università Cinese di Hong Kong e di numerosi altri istituti sparsi per il mondo. Hanno collaborato anche diverse organizzazioni internazionali specializzate in indagini genomiche sui pazienti COVID, come The COVID-19 Human Genetics Initiative, 23andMe Investigators, BRACOVID Investigators e Gen-COVID Investigators. Gli scienziati, coordinati dal professor J. Kenneth Baillie del Roslin Institute dell'ateneo scozzese, sono giunti alle loro conclusioni dopo aver analizzato il DNA di oltre 2.200 pazienti contagiati dal coronavirus e in condizioni critiche, tutti ricoverati presso unità di terapia intensiva (più di 200) dislocate nel Regno Unito.

Attraverso uno studio di associazione chiamato genome-wide association study (GWAS), Baillie e colleghi hanno messo a confronto il codice genetico dei pazienti con quello di altre persone, caricato nelle cosiddette biobanche. Per ogni malato di COVID-19 hanno scelto cinque soggetti di controllo, tutti senza tamponi risultati positivi al coronavirus SARS-CoV-2. Incrociando i dati hanno identificato otto sequenze genetiche più comuni nei pazienti colpiti dalla forma grave dell'infezione. La maggior parte coinvolge geni legati alla risposta infiammatoria e a quella che si innesca in presenza di un'aggressione virale. Ad esempio, la variante chr12q24.13 è legata a enzimi attivatori della risposta antivirale (OAS1, OAS2, OAS3); la chr19p13.2 è prossima al gene che codifica l'enzima tirosina china 2 (TYK2); la chr19p13.3 codifica per la dipeptidil peptidasi 9 (DPP9) e la chr21q22.1 per il gene recettore dell'interferone IFNAR2.

Tutte queste sigle possono apparire criptiche, ma come specificato dal professor David Strain dell'Università di Exeter e della British Medical Association – non coinvolto nello studio – si riferiscono a geni che possono essere associati alle condizioni severe della COVID-19. Ad esempio, spiega lo studioso, TYK2 è associato alla famigerata “tempesta di citochine”, una risposta immunitaria esagerata che può portare a complicazioni potenzialmente fatali (come la sindrome da distress respiratorio acuto o ARDS). Gli scienziati hanno scoperto che è coinvolto anche un gene associato alla predisposizione all'obesità, pertanto la condizione fisica vera e propria dei pazienti potrebbe non essere strettamente connessa all'infezione grave, ma il patrimonio genetico alla base. In linea generale i due meccanismi biologici che predispongono alla forma grave dell'infezione, spiegano gli autori dello studio nell'abstract del proprio articolo, sono legati alla risposta immunitaria all'infezione e alla conseguente risposta infiammatoria dell'organismo.

A rendere i risultati dello studio particolarmente significativi il fatto che sono già a disposizione alcuni farmaci in grado di inibire i recettori identificati dai ricercatori, pertanto si potrebbero predisporre approcci terapeutici mirati per quei pazienti che risultano essere più a rischio. Ad esempio, esistono farmaci anti TYK2 per l'artrite reumatoide che potrebbero essere testati. Naturalmente dovrebbe essere disponibile il “profilo genetico” di ciascun paziente per poter procede in modo mirato, e questo è un dettaglio da non sottovalutare nell'ottica della prevenzione. I dettagli della ricerca “Genetic mechanisms of critical illness in Covid-19” sono stati pubblicati sull'autorevole rivista scientifica Nature.

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