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Scoperte 7mila mutazioni nel coronavirus, ma non lo avrebbero reso più contagioso

Grazie al sequenziamento genetico dell’RNA del coronavirus SARS-CoV-2 estratto da campioni di 15mila pazienti, un team di ricerca guidato da scienziati dello University College London ha identificato circa 7mila mutazioni. Nessuna di esse, tuttavia, avrebbe reso il patogeno più contagioso, ma nella maggior parte dei casi lo avrebbe leggermente indebolito.
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A cura di Andrea Centini
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Il nuovo coronavirus visto al microscopio elettronico in falsi colori. Credit: NIAID-RML
Il nuovo coronavirus visto al microscopio elettronico in falsi colori. Credit: NIAID-RML
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Alla data del 26 maggio, sulla base della mappa interattiva sviluppata dall'Università Johns Hopkins, il coronavirus SARS-CoV-2 ha contagiato oltre 5,5 milioni di persone nel mondo e ne ha uccise poco meno di 347mila (in Italia si registrano 230mila contagiati per circa 33mila decessi). Da quando ha iniziato a serpeggiare nel mondo, alla fine dello scorso anno, si è trasformato in un patogeno pandemico che ha accumulato mutazioni, dando vita a diversi ceppi. Ora sappiamo che da allora le mutazioni emerse sono state poco meno di 7mila, ma sembra che nessuna di esse lo abbia reso più contagioso. Anzi, la maggior parte sarebbe stata leggermente dannosa per il virus (lo avrebbe indebolito), mentre in parte si tratterebbe di mutazioni neutre. Sapere quanto muta il SARS-CoV-2 è fondamentale non solo per verificare l'emersione di ceppi eventualmente più trasmissibili e letali, ma anche per determinare l'efficacia dei potenziali vaccini, che potrebbero non essere più in grado di sviluppare immunità a causa delle troppe modifiche genetiche del virus.

A suggerire che le mutazioni non avrebbero reso il SARS-CoV-2 più contagioso è stato un team di ricerca internazionale guidato da scienziati dello University College di Londra, che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi del Dipartimento di Medicina Nuffield dell'Università di Oxford e dell'istituto Cirad dell'Université de la Réunion (Francia). Gli scienziati, coordinati dal dottor François Balloux, membro dell'UCL Genetics Institute dell'ateneo britannico, sono giunti alle proprie conclusioni dopo aver analizzato le sequenze genetiche ottenute da 15mila pazienti contagiati dal coronavirus in 75 diversi Paesi. Gli scienziati sono partiti dai risultati di uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Infection, Genetics and Evolution.

Dall'analisi dell'RNA virale, Balloux e colleghi hanno identificato 6.822 mutazioni, delle quali 273 si sono manifestate più volte in modo del tutto indipendente. Gli scienziati hanno deciso di studiarne più approfonditamente una trentina, dato che ciascuna di esse è comparsa almeno 10 volte nei campioni biologici estratti dai pazienti. I virus possono sviluppare mutazioni per errore durante la replicazione virale; interagendo con altri patogeni che infettano la stessa cellula oppure a causa degli attacchi del sistema immunitario, che punta a inattivare il virus scombinando le “lettere” del suo codice genetico. Ebbene, attraverso una nuova tecnica filogenetica gli autori dello studio hanno determinato che le mutazioni emerse non avrebbero reso più contagioso il coronavirus: nessuna si è infatti "affermata" dal punto di vista evolutivo, donando un vantaggio al virus. Anche la famigerata mutazione a livello della proteina S o Spike (chiamata D614G) alla base di un nuovo ceppo identificato da scienziati del Laboratorio Nazionale di Los Alamos non avrebbe reso più contagioso il coronavirus.

La maggior parte delle mutazioni rilevate sarebbe stata causata dall'azione del sistema immunitario del paziente contagiato, e come specificato avrebbe determinato un leggero danno al virus, come specificato da Balloux. I dettagli della ricerca sono stati caricati nel database online BiorXiv, in attesa della revisione paritaria e della pubblicazione su una rivista scientifica ad hoc.

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