Scoperta carenza di una proteina dietro le forme gravi della COVID-19: speranze da nuova terapia
I pazienti che sviluppano la forma severa della COVID-19, l'infezione provocata dal coronavirus SARS-CoV-2, presentano un profilo immunologico con caratteristiche distintive. Si tratta di una vera e propria “firma” della patologia grave, che può aiutare i medici a prevedere con maggior precisione andamento e prognosi, ma soprattutto, a intervenire per tempo somministrando trattamenti mirati in grado di contrastare l'infezione. A scoprire questa firma è stato un team di ricerca francese composto da scienziati dell'Istituto Pasteur, dell'Istituto Imagine dell'Università di Parigi, dell'Università della Sorbona e di altri centri di ricerca transalpini.
Ma cosa è stato scoperto esattamente? Gli scienziati guidati dal professor Frédéric Rieux-Laucat hanno osservato che i pazienti più gravi contagiati dal SARS-CoV-2 presentano una carenza significativa dell'interferone di tipo 1, una carica virale nel sangue persistente e una risposta infiammatoria spropositata. Gli interferoni, come specificato dall'Istituto Humanitas, “sono citochine (un tipo di proteine ndr) che vengono prodotte dalle cellule per resistere all’invasione dei virus. Si formano a seguito dell’interferenza tra virus e cellula, da cui il nome. La cellula, colpita dal virus, produce interferone e lo trasferisce alle cellule vicine; l’interferone induce così le cellule a produrre enzimi che agiscono contro il virus non appena questo le colpisce”.
La carenza dell'interferone di tipo 1 nei pazienti con COVID-19 severa è peculiare, dato che altri virus respiratori – come il virus respiratorio sinciziale umano e il virus dell'influenza A – determinano una produzione elevata di questa proteina. Rieux-Laucat e colleghi hanno scoperto che livelli bassi nel sangue di questa proteina sono una sorta di campanello d'allarme, segnalando un imminente peggioramento delle condizioni di salute e il conseguente ricovero in terapia intensiva per la ventilazione meccanica. Più gravi erano i pazienti analizzati dagli scienziati francesi e minori erano i livelli di interferone beta 1 (concentrazioni basse si riscontrano negli anziani e nei pazienti con comorbilità, proprio le vittime principali del SARS-CoV-2).
Per quanto concerne la carica virale persistente, gli autori dello studio sottolineano che essa “indica uno scarso controllo della replicazione virale da parte del sistema immunitario del paziente, che porta a una risposta infiammatoria inefficace e patologica”. Com'è noto da numerose indagini cliniche, una risposta spropositata del sistema immunitario – la cosiddetta tempesta di citochine – rappresenta una delle complicanze più serie della COVID-19, che è in grado di danneggiare seriamente gli organi e portare anche alla morte.
Grazie alla scoperta di questo specifico fenotipo immunologico, gli autori dello studio suggeriscono che somministrando interferone IFN-alfa / Beta in associazione a una terapia antinfiammatoria – ad esempio contro l'interleuchina 6 (IL-6) – o a farmaci corticosteroidi alla stregua del desametasone, potrebbe portare a un miglioramento della prognosi per i pazienti gravi o destinati ad aggravarsi. Recentemente il desametasone è balzato agli onori della cronaca poiché in uno studio condotto dall'Università di Oxford è stato dimostrato che questo farmaco antiinfiammatorio steroideo è in grado di ridurre in la mortalità per la COVID-19. I dettagli della ricerca “Impaired type I interferon activity and inflammatory responses in severe COVID-19 patients” sono stati pubblicati sull'autorevole rivista Science.