Quante varianti di coronavirus stanno circolando nel mondo
La diffusione della cosiddetta “variante inglese” del coronavirus SARS-CoV-2 sta preoccupando esperti e governi di tutto il mondo, a causa della sua presunta trasmissibilità superiore del 70 percento rispetto a quella tipica. La variante, scoperta per la prima volta il 20 settembre e soprannominata “B.1.1.7” dagli esperti, è caratterizzata da 17 mutazioni (14 amminoacidiche e 3 delezioni) che sarebbero alla base della diffusione esplosiva verificatasi nell'Inghilterra sudorientale, benché non ve ne sia ancora la certezza. Non è noto nemmeno se la variante possa innescare una COVID-19 più grave o eludere in qualche modo l'efficacia protettiva dei vaccini, sebbene gli scienziati lo ritengano al momento inverosimile. Questa variante è solo l'ultima in ordine cronologico ad essere balzata agli onori della cronaca internazionale, ma possiede alcune caratteristiche particolari – come il numero elevato di mutazioni localizzate sulla proteina S – a renderla particolarmente significativa.
Come specificato in un articolo pubblicato sulla rivista The Conversation dalla professoressa Lucy van Dorp, ricercatrice senior esperta di Genomica Microbica presso l'Università della California di Los Angeles, esistono molte migliaia di varianti di SARS-CoV-2, che mediamente differiscono l'una dall'altra soltanto per un piccolo numero di mutazioni definitive. È tuttavia chiaro che i ceppi di SARS-CoV-2 attualmente in circolazione globale “hanno poca diversità genomica”, ha affermato la scienziata. Lo scorso aprile, ad esempio, grazie a una approfondita indagine genomica un team di ricerca cinese coordinato da scienziati della Scuola di Medicina dell'Università Zhejiang di Hangzhou, analizzando i campioni virali ha scoperto in un “colpo solo” trenta ceppi diversi, dei quali quelli associati a letalità superiore identificati nell'area di New York e dell'Europa, durante la prima ondata della pandemia. Delle migliaia di varianti che si sono generate da quando il virus ha compiuto lo spillover (il salto di specie) alla fine del 2019, in Italia ce ne sono cinque, identificate dai ricercatori del Ceinge di Napoli, il centro di biotecnologie avanzate dove opera il team COVID-19 della Regione Campania. Si chiamano 19A, 19B, 20A, 20B e 20C e sono state scoperte mettendo a confronto i genomi di circa 250 particelle virali estratte dai campioni di pazienti positivi. Al momento non ci sono dati sufficienti per evidenziare differenze nell'aggressività rispetto al virus “selvatico”.
Che circolino tutte queste varianti del coronavirus non c'è da stupirsi. Come affermato in un comunicato stampa dai ricercatori del COVID-19 Genomics UK (COG-UK), organizzazione britannica impegnata nell'analisi e nel sequenziamento del genoma del SARS-CoV-2, i virus mutano infatti naturalmente, replicazione dopo replicazione nell'ospite (l'essere umano). E il coronavirus SARS-CoV-2 circola ormai da un anno in decine di milioni di persone. In base alle indagini filogenetiche condotte fino ad oggi, il patogeno emerso in Cina accumula una o due mutazioni al mese: “Ciò significa che molti dei genomi sequenziati oggi differiscono di circa 20 punti dai primi genomi sequenziati in Cina a gennaio”, ha specificato l'autorevole rivista scientifica Science.
Prima della variante inglese era balzata agli onori della cronaca la cosiddetta "variante spagnola", un ceppo chiamato 20A.EU1 che si riteneva fosse stato diffuso dalla penisola iberica al resto dell'Europa durante le vacanze estive. Il ceppo, analizzato da un team di ricerca internazionale guidato da scienziati svizzeri dell'Università di Basilea e dal consorzio SeqCOVID-SPAIN, è caratterizzato da sei o più mutazioni a carico della proteina S, quella che il virus sfrutta per legarsi al recettore ACE-2 delle cellule umane, infettarle e dare il via al processo di replicazione che determina la COVID-19. Anche in questo caso si riteneva che le mutazioni lo avessero reso più trasmissibile – come le 8 a livello della proteina Spike rilevate nella variante inglese – tuttavia oggi si ritiene che non sia così, come spiegato a Science dal virologo tedesco Christian Drosten dell'ospedale universitario Charité di Berlino. Gli ha fatto eco la collega Emma Hodcroft dell'Università di Basilea, sottolineando che i dati della variante spagnola all'inizio erano “confusi e distorti”. Non si esclude che lo stesso possa accadere con la variante inglese.
Un'altra mutazione che sta destando l'interesse dei ricercatori è la famigerata “D614G”, scoperta la scorsa primavera da un team di ricerca internazionale guidato da studiosi del Dipartimento di Biologia Teorica e Biofisica del Laboratorio Nazionale di Los Alamos. Diversi studi hanno indicato che tale mutazione avrebbe reso il patogeno più contagioso – nella città di Houston dove è stato condotto uno degli ultimi studi ha interessato il 99,9 percento dei positivi – ma anche in questo caso manca ancora la “pistola fumante” che ne accerti la capacità. Esistono dunque migliaia di lignaggi del coronavirus, a causa della naturale tendenza dei patogeni a mutare, ma si ritiene che solo una frazione di queste mutazioni possa influenzare trasmissibilità, aggressività ed efficacia dei vaccini. Al momento non c'è alcuna prova di queste capacità per nessuna di quelle identificate; la variante inglese resta comunque particolarmente significativa per via delle numerose mutazioni rilevate contemporaneamente. Non a caso diversi governi – compreso quello italiano – hanno bloccato i voli col Regno Unito per provare ad arginarla.