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Quando l’inconscio ci salva “dal male”

L’osservazione condotta su alcune aree del cervello di soggetti bilingui avrebbe dimostrato sperimentalmente un meccanismo di repressione che si attiva di fronte a concetti dall’impatto emotivo fortemente negativo.
A cura di Nadia Vitali
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come l inconscio ci salva dal male

Proteggere il cuore dalle emozioni più forti e devastanti, quelle che la memoria talvolta sembra riportare a galla nostro malgrado: un compito che le complessità della mente svolgono avvalendosi dell'aiuto di numerosi meccanismi, con l'obiettivo di creare un'organizzazione nel disordine che regna nei meandri della coscienza, quotidianamente riempita di informazioni. Sistemando e catalogando esperienze sotto forma di reminiscenze, collocando in apposite zone i propri vissuti in base al valore che si attribuisce a questi, conservando tracce e nozioni di cui servirsi per relazionarsi alla realtà e agli avvenimenti che verranno, il cervello compie un lavoro costante volto ad agevolare quei processi che, molto spesso, potrebbero finire paralizzati dinanzi a concetti e pensieri dalla portata emotiva troppo intensa.

Sogno, realtà, fantasia – Numerosi sono gli strumenti che tornano utili per riuscire in questa direzione: è dibattito ancora tra gli scienziati, ad esempio, rispetto alle funzioni del sonno, da molti ritenuto indispensabile per rendere meno dolorosi i ricordi, attenuandone le componenti più traumatiche. E se anche, come sostengono alcuni, si fosse attribuita troppa importanza a quell'affascinante enigma che è la "fase REM", è noto come il cervello anche durante la veglia contribuisca al meccanismo di fissazione della memoria in modo da camuffare o rimuovere alcuni aspetti che, altrimenti, sarebbero un macigno insostenibile per la nostra esistenza: nascono così i falsi ricordi, quando inconsciamente mescoliamo realtà e fantasia, rendendole indissolubilmente legate ed indistinguibili. Con maggiore o minore frequenza, a seconda delle sensibilità soggettive e degli eventi, il cervello contribuisce non solo a fare un'ampia scrematura di quella parte di informazioni che risulta superflua e dunque merita un sereno oblio al fine di ottimizzare la resa del nostro organo più importante, ma anche ad addolcire e tamponare quanto si vorrebbe tenere il più lontano possibile dai pensieri di ogni giorno.

Sensazioni ed interferenze – Lo stato emotivo non di rado si trova ad interferire con alcuni tra i principali processi cognitivi: la memoria e l'immaginazione, come già scritto, ma anche incidendo sull'attenzione e sulla capacità di accumulare informazioni e selezionare gli stimoli circostanti. Al fine di evitare che ciò crei troppi disturbi, operando alla stessa maniera di un "filtro", il cervello elabora continuamente i dati immagazzinati, senza che nulla di quanto accade venga passato all'analisi della coscienza, cercando di ripulire e rendere tollerabile proprio quella emotività che, talvolta, potrebbe risultare come un fastidioso «rumore di fondo» che condiziona le facoltà sovrapponendosi ad esse. Ma fino ad ora non era stata ancora adeguatamente presa in considerazione dagli scienziati l'ipotesi che il medesimo meccanismo di difesa potesse essere applicato addirittura alle funzioni di elaborazione e comprensione dei termini: insomma al processo cognitivo del linguaggio. Nell'ambito di una serie di esperimenti condotti da Yan Jing Wu e Guillaume Thierry della britannica Bangor University, i due ricercatori ritengono invece di aver verificato empiricamente che il cervello tende a difendere il cuore dalle emozioni troppo forti, anche qualora queste possano essere scatenate da semplici parole, decidendo di bloccare l'accesso ad una serie di informazioni collegate ad esse.

Nelle menti che "parlano due lingue" – La ricerca nasce come risultato di un lavoro condotto sul cervello di persone bilingui: gli studiosi hanno già dimostrato come i soggetti che padroneggiano fluentemente una seconda lingua, parlandola abitualmente anche da tempi lunghissimi, accedono sempre in maniera inconscia al primo idioma per decodificare un testo in lettura. Partendo da questa osservazione, e monitorando l'attività grazie all'elettroencefalogramma per verificare la risposta  agli stimoli, è stato possibile verificare sui volontari che hanno partecipato all'esperimento come, di fronte a parole la cui connotazione negativa è fortemente spiccata, il cervello impedisca l'attivazione del meccanismo automatico di traduzione nella lingua madre. Insomma, nel leggere «violenza», anziché termini neutri come «vacanza» o «teoria», l'inconscio provvederebbe a limitare l'impatto dell'emozione, lasciando la parola non tradotta: riducendo così al minimo possibile contenuti che potrebbero creare ansie, disturbi e disagi nella mente. Nel commentare la ricerca, Yan Jing Wu ha dichiarato: «Pensiamo di aver identificato, per la prima volta, il meccanismo attraverso il quale l'emozione controlla i processi di pensiero fondamentali, al di fuori della coscienza. Probabilmente questo processo somiglia al meccanismo mentale della repressione, già teorizzato da tempo ma mai individuato con esattezza prima d'ora». La lingua che parliamo, uno dei tanti strumenti che usiamo per relazionarci ai nostri simili, non è priva di elementi in grado di incidere sugli stati emotivi, per questo il cervello applica anche ad essa quel "filtro" che provvede a diluire le sensazioni, talvolta sgradevoli, che essa può suscitare: processi inconsci capaci di interdire l'accesso anche ad informazioni strutturate dalla nostra coscienza.

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