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Covid 19

Plasma dei guariti contro il coronavirus, esperti: “Terapia promettente ma complicata”

Utilizzata da decenni nel contrasto di diverse patologie, la plasmaterapia – ovvero l’infusione di plasma dei guariti ricco di anticorpi – è stata approvata anche per trattare i pazienti con COVID-19, l’infezione provocata dal coronavirus SARS-CoV-2. Nonostante si tratti di un approccio promettente, è costoso e complesso, e secondo molti scienziati ha limiti di cui dover tenere conto.
A cura di Andrea Centini
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Quando non è disponibile una cura per una malattia emergente, le autorità sanitarie possono permettere il cosiddetto uso compassionevole e off label dei farmaci, attivando protocolli terapeutici con principi attivi ancora in sperimentazione o progettati per altre patologie. È esattamente ciò che stiamo osservando con la pandemia di COVID-19, l'infezione scatenata dal coronavirus SARS-CoV-2. I pazienti colpiti dal patogeno vengono infatti trattati con medicinali pensati per contrastare l'AIDS (lopinavir e ritonavir), l'Ebola (remdesivir), le complicazioni dell'artrite reumatoide (tocilizumab), la malaria (idrossiclorochina e clorochina) e altri ancora, con risultati a volte contrastanti. In assenza di una cura, del resto, non si può fare altro che sperimentare, tuttavia i medici di tutto il mondo hanno a disposizione un'altra “arma” che giunge direttamente dal passato: la plasmaterapia. In parole semplici, si tratta dell'infusione nei pazienti del plasma dei guariti dalla COVID-19, contenente gli anticorpi in grado di combattere il patogeno. Già autorizzata dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), questa terapia sta dando ottimi risultati anche nel nostro Paese, ma non è esente da limiti di cui è doveroso tener conto.

I limiti della plasmaterapia

Il primo vero limite della plasmaterapia è quello della disponibilità del plasma, la parte liquida del sangue che si ottiene separando la parte corpuscolare (i globuli rossi), come specificato a fanpage dal professor Fabrizio Pregliasco, virologo presso l'Università degli Studi di Milano. Il numero dei guariti da COVID-19, in Italia, è infatti ancora ridotto per poter disporre di fluido da infondere a tutti i pazienti che potrebbero necessitarne, inoltre, non tutti i guariti sono donatori idonei, e la donazione è sempre un gesto volontario. Questi fattori, naturalmente, influiscono sulla disponibilità della risorsa, tanto che che l'ospedale San Matteo di Pavia, in prima linea nell'utilizzo della plasmaterapia in Italia, vorrebbe creare una vera e propria “banca del plasma”, da cui attingere nel caso in cui si dovesse verificare una seconda ondata di contagi nel prossimo autunno.

Come specificato dal dottor Walter Ricciardi, rappresentante del comitato esecutivo dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e consigliere per l'emergenza coronavirus del ministro della Salute Roberto Speranza, la plasmaterapia è un approccio "molto sofisticato", che "bisogna saper fare" e che richiede "grandi tecnologie", oltre ad essere "costoso e complesso". Le procedure per estrarre e purificare sono infatti laboriose e richiedono precisione certosina. Pur essendo un approccio molto promettente, inoltre, i risultati osservati sono ancora scarsi per trarre delle conclusioni definitive, come sottolineato dal professor Pierluigi Viale, che dirige l'unità operativa di Malattie Infettive presso il Policlinico Sant’Orsola di Bologna. Lo scienziato ha spiegato al Resto del Carlino che la tecnica, basata sulla trasmissione passiva degli anticorpi, viene utilizzata da oltre 50 anni per trattare determinate patologie, ma ad oggi non è noto se gli anticorpi presenti nel plasma dei pazienti guariti dalla COVID-19 siano effettivamente protettivi e per quanto tempo perdurino. Del resto la procedura avviene di concerto con l'uso di farmaci. Viale ricorda anche che infondere plasma di un altro soggetto potrebbe innescare “patologie immuno-mediate”.

Trattandosi di un fluido corporeo, inoltre, il plasma potrebbe essere veicolo di altri agenti infettivi, alla stregua di quelli dell'epatite b e c. Il professor Pregliasco ci ha spiegato che i metodi di purificazione del plasma odierni sono sensibilmente migliori rispetto a quelli del passato, dunque i rischi sono molto inferiori, ma non del tutto eliminati. Per evitare questi rischi si potrebbero utilizzare anticorpi semi-sintetici, i cosiddetti anticorpi monoclonali: una recentissima ricerca condotta dall'Università di Utrecht (Paesi Bassi) ne ha identificato uno chiamato 47D11, in grado di neutralizzare il coronavirus in provetta. Qualora dovesse superare tutti i test clinici e preclinici in termini di efficacia e sicurezza, questa immunoglobulina sintetizzata in laboratorio potrebbe bypassare i limiti intrinseci della plasmaterapia. Il professor Pregliasco ha infine specificato che l'uso del plasma dei guariti è un "trattamento provvisorio", perché si tratta di immunoglobuline che si degradano dopo l'infusione. A differenza della vaccinazione, l'immunoprofilassi attiva a lungo termine, quella passiva del plasma è invece pensata per un'azione immediata.

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