Perché un vaccinato con due dosi può essere contagiato dalla variante Delta del coronavirus
Sta suscitando parecchio clamore il contagio con la variante Delta del coronavirus SARS-CoV-2 (precedentemente conosciuta come “seconda indiana” – B.1.617.2) di un frequentatore della palestra Virgin Active di Milano Città Studi, assieme ad altri nove clienti. A differenza degli altri, infatti, il soggetto in questione – un operatore sanitario – aveva completato il proprio ciclo vaccinale, avendo ricevuto la doppia dose del farmaco. La notizia è stata colta al balzo soprattutto da chi cavalca la narrazione anti-vaccinista, asserendo in post privi di fondamento scientifico l'inutilità dei vaccini contro il patogeno pandemico. In realtà è perfettamente normale che ci siano alcune persone tecnicamente immunizzate che risultano positive al tampone oro-rinofaringeo, a maggior ragione a causa di varianti più trasmissibili e caratterizzate da mutazioni di fuga immunitaria che possono ridurre l'efficacia dei vaccini.
La ragione principale per cui un vaccinato con due dosi può essere contagiato dal coronavirus SARS-CoV-2 risiede nel fatto che nessun vaccino è efficace al 100 percento. Durante i processi di approvazione per l'uso di emergenza dei vaccini anti Covid di Pfizer, Moderna, AstraZeneca e Johnson & Johnson, ovvero quelli attualmente disponibili in Italia, i risultati dei trial clinici sottoposti alle commissioni dell'Agenzia Europea per i Medicinali (EMA) e dell'Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) lo indicano chiaramente. Ad esempio, il vaccino BNT162b2/Tozinameran (nome commerciale Comirnaty) di Pfizer-BioNTech ha dimostrato un'efficacia del 95 percento; il Vaxzevria di AstraZeneca dell'82 percento (con seconda dose a 3 mesi); l'Ad26.COV2.S o JNJ-78436735 di Johnson & Johnson del 66 percento; e l'mRNA-1273 di Moderna Inc-NIAID del 94 percento. In tutti questi casi si parla di efficacia contro l'infezione sintomatica (COVID-19), e non contro il contagio. Ciò significa che se il 95 percento immunizzato con lo Pfizer è protetto dalla malattia, c'è un 5 percento che ne manifesta comunque i sintomi in caso di esposizione al coronavirus.
Le infezioni asintomatiche, d'altro canto, risultano essere ancora più significative in termini percentuali. Secondo un recente studio dei Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie (CDC) americani, i vaccini a RNA messaggero di Pfizer e Moderna riducono il rischio di infezioni del 90 percento dopo due dosi e dell'80 percento dopo una sola dose. Se ci riferiamo in modo specifico alla variante Delta, i dati provenienti dal Regno Unito – dove la circolazione del ceppo è più significativa – mostrano chiaramente una riduzione nell'efficacia dei vaccini. Una singola dose di Vaxzevria o Comirnaty ha un'efficacia del 33,5 percento contro la variante Delta e del 51 percento contro la variante Alfa (ex inglese B.1.1.7). Due dosi del vaccino di AstraZeneca hanno invece un'efficacia del 59,8 percento contro l'ex seconda variante indiana, mentre due due dosi di quello Pfizer arrivano all'87,9 percento. Dunque resta sempre una piccola percentuale di pazienti che, seppur coperta dalle due dosi, viene colpita dall'infezione sintomatica, in taluni casi anche grave e persino fatale, come dimostra l'ultimo bollettino della Public Health England (PHE), in base al quale su 383 persone ricoverate in ospedale per COVID-19 in 42 avevano la doppia vaccinazione, 12 dei quali sono deceduti.
Come sottolineato dagli esperti, la vaccinazione è attualmente l'arma migliore che abbiamo per abbattere i tassi di contagio, ospedalizzazione e morte, come evidenziano i dati epidemiologici dove le campagne vaccinali corrono di più, pertanto tutte le persone candidate sono invitate a sottoporsi alle iniezioni quanto prima, ma ciò non significa che la protezione contro la COVID-19 sia totale. Ciò può essere influenzato anche dalle condizioni di salute individuali e dai farmaci assunti, che possono ad esempio rendere la risposta immunitaria ai vaccini meno robusta. Per tutte queste ragioni non c'è assolutamente da stupirsi che l'operatore sanitario trattato con due dosi sia risultato positivo alla variante Delta, nota per essere fino al 50-60 percento più trasmissibile della variante Alfa (che ha guidato le curve epidemiologiche dello scorso inverno) e caratterizzata da mutazioni sulla proteina S o Spike che possono eludere almeno in parte gli anticorpi neutralizzanti.