Perché la variante sudafricana rende il vaccino Covid meno efficace
Un nuovo riscontro indica che il livello di protezione dei vaccini anti-Covid contro la variante sudafricana del coronavirus può essere inferiore a quello osservato con le precedenti versioni del virus. La conferma di quanto ipotizzato fin da quando la versione di Sars-Cov-2 denominata B.1351 (e nota anche come 20H / 501Y.V2) è stata identificata, arriva dai dati annunciati dal Johnson & Johnson sull’efficacia del candidato vaccino sviluppato da Janssen, la controllata belga della multinazionale statunitense.
Minore efficacia contro la variante sudafricana
La società ha comunicato che il vaccino monodose è stato testato in otto Paesi in tre continenti, incluso il Sudafrica “dove quasi tutti i casi di Covid-19 (95%) erano dovuti a infezione dalla variante Sars-Cov-2 del lignaggio B.1351”. Nel dettaglio, si legge nella nota, la protezione dalle forme di Covid-19 da moderate a gravi è stata del 57% in Sudafrica rispetto al 72% osservato negli Stati Uniti a 28 giorni dalla vaccinazione. Si tratta quindi di uno scarto del 15% in termini di efficacia che, per il prodotto di Johnson & Johnson, suggerisce una minore suscettibilità della variante sudafricana alla risposta immunitaria indotta dalla vaccinazione rispetto a quella rilevata in aree geografiche dove sono maggiormente diffuse altre varianti.
Il sospetto che questa variante fosse in grado di eludere agli anticorpi diretti contro le versioni precedenti del virus era stato recentemente evidenziato dai risultati di un recente studio che ha valutato come alcune mutazioni abbiano conferito al virus la sostanziale capacità di sfuggire agli anticorpi neutralizzanti presenti nel plasma di persone che hanno contratto l’infezione da coronavirus nella prima ondata della pandemia, sollevando preoccupazione per il rischio di reinfezione e per la protezione conferita dai vaccini già approvati e che, analogamente, potrebbero essere meno efficaci contro questa variante.
Il vantaggio delle versione mutata
I principali timori ruotano attorno ad alcune mutazioni localizzate nel gene S che codifica per la proteina virale Spike che il virus utilizza per infettare le cellule e che, nella sua versione non mutata, è attualmente sfruttata nei vaccini anti-Covid per indurre la risposta immunitaria. Nello specifico, le informazioni ad oggi disponibili sembrano suggerire che, tra le mutazioni presenti nella variante sudafricana, alcune abbiano contribuito a una maggiore trasmissibilità (tra queste N501Y presente anche nella variante inglese B.1.1.7) e altre a ridurre la sensibilità del virus agli anticorpi.
Tra queste, nonostante i dati sul loro meccanismo d’azione a livello molecolare siano limitati, parte dei dubbi ricade sulla mutazione K417N che, in combinazione con N501Y, ha mostrato di sopprimere completamente l’effetto anticorpale. Un’altra mutazione, chiamata E484K, sembra invece ridurre la vulnerabilità del virus agli anticorpi. Secondo i ricercatori, le mutazioni nel sito E484 nella proteina Spike possono determinare una riduzione di dieci volte della capacità di alcuni anticorpi di neutralizzare la variante sudafricana, sebbene quella anticorpale costituisca solo una parte della risposta immunitaria, con altre componenti, come le cellule T, che possono non essere influenzate.