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Perché la variante giapponese del coronavirus spaventa più delle altre

Oltre a condividere con la variante inglese la mutazione N501Y che preoccupa per una maggiore infettività, il ceppo isolato a Tokyo in quattro viaggiatori provenienti dal Brasile presenta la mutazione E484K segnalata anche nella variante sudafricana, per cui si teme che possa resistere agli anticorpi indotti dall’infezione del virus originario. Oltre a ciò, la nuova variante presenta un numero più alto di mutazioni a livello della proteina Spike, ben dodici rispetto alle otto del ceppo inglese e nove di quello sudafricano.
A cura di Valeria Aiello
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Cosa c’è di diverso nella nuova variante Covid isolata in Giappone? E perché spaventa più delle altre? Sono ore di forte apprensione per le diverse varianti di Sars-Cov-2 emerse negli ultimi mesi, con numerosi gruppi di ricerca che si stanno affrettando a dare un senso alle mutazioni finora identificate. I primi risultati di laboratorio sono stati pubblicati negli ultimi giorni e molti altri sono attesi nelle prossime settimane, uno sforzo che finora ha suggerito che il coronavirus Sars-Cov-2 abbia intrapreso diversi percorsi evolutivi con esiti a volte simili, in particolare nelle regioni dove l’agente patogeno si è maggiormente diffuso e ha dunque una più alta possibilità di mutare. In particolare, nonostante si tratti di un ceppo distinto, la nuova variante isolata a Tokyo in quattro viaggiatori provenienti dal Brasile condivide alcune mutazioni con le varianti che preoccupano per una maggiore infettività, oltre a presentare similitudini con varianti che, in una certa misura, sono motivo di perplessità perché potrebbero non rispondere alla vaccinazione.

Complessivamente, si ritiene che la variante di Sars-Cov-2 isolata in Giappone e appartenente al ceppo B.1.1.248 abbia un numero più alto di mutazioni a livello della proteina Spike, almeno 12 rispetto alle otto identificate nel ceppo inglese e le nove presenti in quello sudafricano. Due di queste, come premesso, sono simili a quelle presenti nelle altre due varianti: analogamente a quella inglese, nota come B.1.1.7, anche la variante giapponese presenta la mutazione N501Y che si trova nel sito di legame del recettore, per cui i dati preliminari indicano una carica virale più elevata, suggerendo un potenziale per una maggiore trasmissibilità. D’altra parte, similmente al ceppo sudafricano, noto come 501Y.V2, la nuova variante nipponica è caratterizzata dalla mutazione E484K (assente nel ceppo inglese) che è stata inizialmente segnalata come variante di fuga immunitaria, cioè una mutazione genetica che rende difficile il funzionamento dei fattori che inibiscono l’infezione, come gli anticorpi.

Dati sperimentali indicano infatti che la mutazione E484K sembra conferire una certa resistenza agli anticorpi indotti dall’infezione naturale causata dal ceppo originario. A questa stessa mutazione è stato inoltre attribuito un caso di reinfezione che si è verificato in Brasile in una donna di 45 anni che si ritiene sia la prima al mondo ad essere stata reinfettata da una variante del coronavirus con mutazione E484K. Secondo quanto indicato dall’Organizzazione Mondiale di Sanità (OMS), sebbene questa nuova variante sia stata segnalata in Brasile, la mutazione rilevata in Giappone pare appartenga a un ceppo distinto di coronavirus.

Ad ogni modo, sono diverse le incognite che ruotano attorno alla variante giapponese, a partire dai dubbi circa il vantaggio conferito da tali mutazioni sia in termini di trasmissibilità sia di resistenza agli anticorpi. Una vera e propria “costellazione mutazionale”, come definita dagli esperti, su cui l’OMS sta collaborando con le autorità giapponesi e quelle brasiliane per valutare l’importanza dei primi dati sperimentali e comprendere se questa nuova variante, così come quelle identificate negli ultimi mesi, possa determinare cambiamenti nella diffusione, nel quadro clinico o nella gravità di Covid-19, o se la circolazione di varianti mutate possa avere un impatto sulle contromisure, compresa la diagnostica, le terapie e i vaccini. In tal senso, l’OMS ha consigliato alle autorità sanitarie di tutti i Paesi di “aumentare i test sul sequenziamento dei virus SARS-CoV-2, ove possibile, e di condividere i dati di sequenza a livello internazionale, in modo che i cambiamenti nel virus possano essere monitorati”.

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