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Covid 19

Perché in Asia hanno molti meno morti per COVID-19 che in Europa: lo studio italiano

La pandemia di COVID-19 non ha colpito in tutto il mondo con la stessa forza, e sebbene il coronavirus SARS-CoV-2 sia emerso in Asia, proprio qui si sono registrati tassi di mortalità bassissimi rispetto a quelli rilevati in Europa e nel Nord America. Com’è possibile? A spiegarlo un nuovo e approfondito studio guidato da scienziati italiani.
A cura di Andrea Centini
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Alla data odierna, sabato 28 novembre 2020, sulla base della mappa interattiva messa a punto da scienziati americani dell'Università Johns Hopkins, la pandemia di COVID-19 nel mondo ha provocato quasi 62 milioni di contagi e 1,45 milioni di vittime (nel nostro Paese si registrano 1,53 milioni di contagi e 53.677 morti). Si tratta dei dati ufficiali, considerati un'ampia sottostima di quelli reali, a causa del fatto che larga parte delle persone contagiate dal coronavirus SARS-CoV-2 è del tutto asintomatica, pertanto molte positività sfuggono alle maglie dei controlli. Ad di là dell'incertezza del dato complessivo, ci sono nette differenze nella diffusione del patogeno tra i diversi Paesi, e un dato particolarmente significativo è quello relativo ai tassi di mortalità registrati in Asia, sensibilmente inferiori rispetto a quelli europei e nordamericani. Le ragioni dietro a questo miglior controllo della pandemia di COVID-19 in Asia – soprattutto nell'Estremo Oriente – sono molteplici e variegate, come dimostrato da un nuovo e approfondito studio a guida italiana.

A condurre l'indagine è stato un team di ricerca internazionale guidato da scienziati dell'IRCCS Istituto Scientifico San Raffaele e della Facoltà di Medicina dell'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi russi della Scuola di Medicina del Centro Federale di Ricerca Clinica di Rianimazione e Riabilitazione e dell'Istituto di Ricerca Reanimatologica V. Negovsky di Mosca. Gli scienziati, coordinati dai professori Alberto Zangrillo e Giovanni Landoni del Dipartimento di Anestesia e Terapia Intensiva dell'istituto meneghino, sono giunti alle loro conclusioni dopo aver analizzato i dati raccolti nei database Worldometers.info e OurWorldInData.org, elaborati attraverso un programma noto anche al grande pubblico: Microsoft Excel. Il dato più significativo, come indicato, è quello della mortalità, nello specifico quello dei decessi per milione di abitanti; basti pensare che è risultato essere di appena 1 per milione a Taiwan, Vietnam e Thailandia, contro i 1.112 decessi per milione di abitanti in Belgio, il rapporto peggiore in assoluto a livello globale. Complessivamente, la mortalità media per milione di abitanti nei Paesi asiatici è stata di appena 2,7, contro 197 rilevata in Europa. Nonostante il virus sia emerso in Cina (nella città Wuhan della provincia dello Hubei) e abbia raggiunto prima altri Paesi orientali, colti praticamente di sorpresa, Vecchio Continente e Nord America sono stati letteralmente falcidiati per numero di vittime e contagi. Nessun Paese asiatico compare nei primi 20 posti per tasso di mortalità ogni milione di abitanti; com'è possibile? Tenendo anche in considerazione che lockdown e altre misure restrittive sono state applicate in modo simile nella stragrande maggioranza dei Paesi?

Il professor Landoni e colleghi sottolineano innanzitutto che l'età media in Asia è significativamente più bassa rispetto a Nord America ed Europa. Se infatti nei Paesi asiatici si attesta a soli 31 anni, negli Stati Uniti e in Canada è di circa 35 anni, mentre in Europa si arriva a 42 anni. In Italia si toccano addirittura i 45,5 anni. Siamo infatti un Paese con larga parte della popolazione in età avanzata, con i giovani che fanno sempre meno figli e più tardi, per molteplici ragioni, non ultime quelle legate alla precarietà del lavoro. Questa situazione si è riflessa in modo drammatico sulla letalità della COVID-19, dato che le complicazioni potenzialmente fatali si sviluppano in percentuali maggiori negli anziani con comorbilità (in particolar modo di sesso maschile, con diabete e ipertensione). Ma l'età media della popolazione è solo uno dei fattori coinvolti. In Asia, e in particolar modo in Cina, Corea del Sud, e altri Paesi dell'Estremo Oriente, negli ultimi decenni hanno avuto a che fare con epidemie di patologie infettive alla stregua di SARS e MERS, causate da coronavirus respiratori strettamente imparentati col SARS-CoV-2. Ciò significa che i Paesi avevano già strategie e protocolli rodati per spezzare la catena dei contagi, per tracciare, testare e isolare i contatti (misure agevolate anche da una tutela della privacy molto più lassa rispetto all'Occidente). Noi ci siamo sentiti al “sicuro” troppo a lungo, e ad esempio attraverso i voli diretti fra Wuhan e Milano, che hanno portato in Italia migliaia di persone provenienti dal cuore dei focolai epidemici, abbiamo permesso al virus di raggiungerci e confondersi con i patogeni influenzali e parainfluenzali, fino all'esplosione di casi verificatasi drammaticamente a partire da febbraio.

Va inoltre considerato che nei Paesi asiatici il distanziamento sociale, l'uso delle mascherine e la costante igiene delle mani sono consuetudini che esulano dallo stato di pandemia, e sono intimamente connesse a una cultura del rispetto verso l'altro che spesso manca dalle nostre parti. In Giappone e Cina, per fare un esempio, si indossano le mascherine anche per un comune raffreddore, (oltre che per difendersi dallo smog), e quando si è malati in molti non si sognerebbero mai di andare comunque a lavoro, rischiando di contagiare colleghi e persone potenzialmente a rischio. Noi non eravamo nemmeno “socialmente pronti” all'uso dei dispositivi di protezione individuale, e sebbene oggi vengono normalmente accettati – tranne che da una minoranza di cosiddetti negazionisti – all'inizio il messaggio non è passato efficacemente. In parte c'è anche la responsabilità delle autorità sanitarie, che le hanno sconsigliate a lungo prima di un repentino dietrofront. Si pensa che sia stata una manovra orchestrata per proteggere le poche scorte in favore degli operatori sanitari. Landoni e colleghi sottolineano anche che meno morti in Asia potrebbero esserci stati per fattori genetici; nelle popolazioni orientali sono meno diffuse mutazioni che favoriscono la formazione di coaguli di sangue, tra le complicazioni più pericolose e letali della COVID-19. Quelle elencate sono solo alcune delle ragioni per cui in Asia la pandemia è stata controllata meglio, ma possiamo ancora trarre benefici dalle loro strategie, nell'ottica di una potenziale terza ondata, che si spera possa essere scongiurata anche grazie all'arrivo dei primi vaccini. I dettagli della ricerca “Why are Asian countries outperforming the Western world in controlling COVID-19 pandemic?” sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Pathogens and Global Health.

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