Perché il tampone non viene fatto solo in bocca
Il tampone rino-orofaringeo (o naso-orofaringeo) è il test diagnostico più affidabile per verificare la positività al coronavirus SARS-CoV-2. È quello che si fa ad esempio al drive-in, dopo aver ricevuto l'impegnativa dal medico di famiglia, nel caso in cui si manifestassero sintomi sospetti ascrivibili alla COVID-19 come tosse, febbre, difficoltà respiratorie, perdita dell'olfatto (anosmia) e alterazione del gusto (disgeusia) e via discorrendo. Può essere richiesto anche in caso di contatto stretto con un positivo e in altri contesti di screening. Come suggerisce il nome stesso, il tampone prevede il prelievo del materiale biologico sia attraverso la bocca che dalle narici, grazie a un lungo bastoncino cotonato – simile a un cotton-fioc – maneggiato dall'operatore sanitario di turno. Ma perché il tampone non viene fatto solo in bocca? Tenendo anche presente che è decisamente meno "fastidioso" del passaggio nasale?
Innanzitutto, come indicato dalle principali autorità sanitarie, il tampone rinofaringeo è il test standard per la diagnosi di eventuali infezioni / malattie infettive che riguardano le alte vie respiratorie. Normalmente respiriamo attraverso il naso e dunque le narici rappresentano la principale porta d'ingresso di eventuali goccioline (droplet) e aerosol potenzialmente contaminati da patogeni, come quelli responsabili del comune raffreddore, delle sindromi parainfluenzali, dell'influenza vera e propria e anche della COVID-19, l'infezione scatenata dal coronavirus SARS-CoV-2. Una ragione in più per andare a “cercare” nel naso le particelle virali del patogeno emerso in Cina risiede nel fatto che qui risiedono le cellule dell'epitelio nasale, che esprimono in modo significativo il recettore ACE-2 (oltre che la neuropilina-1). Come hanno dimostrato numerosi studi, il recettore ACE-2 rappresenta l'aggancio per la proteina S o Spike del virus, quella che costella come tanti “ombrellini” il guscio lipidico esterno del patogeno (pericapside o peplos), donando al virus quell'aspetto a corona – da cui deriva il nome della famiglia – quando osservato al microscopio elettronico. In parole semplici, la proteina S del coronavirus si lega al suddetto recettore, rompe la parete cellulare, riversa l'RNA virale all'interno e avvia il processo di replicazione, che è alla base dell'infezione.
Non c'è dunque da stupirsi che infilare un bastoncino di una decina di centimetri nelle fosse nasali, poggiandolo sul muco che riveste la superficie della mucosa del rinofaringe, sia il metodo migliore per andare a caccia di eventuali tracce del coronavirus. Ma il rinofaringe è collegato anche all'orofaringe (respiriamo del resto anche attraverso la bocca), pertanto l'inserimento di un secondo tampone fino all'area tonsillare (strofinandolo sia sui pilastri tonsillari che sull'orofaringe posteriore) permette di verificare la presenza di particelle virali anche nella seconda “porta d'accesso” e avere un risultato più preciso. Come affermato da nurse24, i CDC americani raccomandano il test nasofarigeo, ma ritengono l'orofaringeo una "valida alternativa". Farli entrambi offre ancora più sicurezza nella precisione diagnostica.
Ma che il naso rappresenti la via maestra lo dimostra anche “Uffa!”, il nuovo autotampone nasale messo a punto da scienziati del Laboratorio di Immunologia dell’Ospedale Pediatrico Meyer di Firenze. Il kit autosomministrato (il campione biologico si preleva in autonomia, senza operatori sanitari) si basa su un tampone che si inserisce soltanto nelle narici, e non fino al pavimento del rinofaringe. Il primo studio sperimentale ha dimostrato che Uffa! ha la stessa efficacia del classino tampone molecolare rinofaringeo. Naturalmente, per entrambi i test i campioni biologici estratti e inseriti in provetta con i reagenti vanno analizzati in laboratorio, attraverso una procedura chiamata Reverse Real-Time PCR (rRT-PCR). Grazie ad essa è possibile intercettare la presenza di materiale genetico virale del coronavirus SARS-CoV-2.