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Covid 19

Perché i medici non sono convinti che Trump si sia davvero ripreso dall’infezione da coronavirus

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump è stato ricoverato presso un ospedale militare dopo aver contratto la COVID-19, l’infezione da coronavirus SARS-CoV-2, ed è stato dimesso poco dopo grazie ai trattamenti cui è stato sottoposto e al netto miglioramento delle sue condizioni di salute. Nonostante ciò, diversi medici non sono convinti che si sia pienamente ripreso: ecco perché.
A cura di Andrea Centini
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Appena saputo di poter lasciare l’ospedale militare Walter Reed di Bethesda (Maryland) dove era stato ricoverato a causa dell'infezione da coronavirus SARS-CoV-2, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato raggiante su Twitter di “sentirsi meglio di 20 anni fa”, consigliando ai propri follower di non aver paura del patogeno e di non farsi condizionare la vita dalla sua presenza. Questo sfoggio di sicurezza e benessere è continuato in diversi cinguettii; Trump ha anche annunciato di sentirsi prontissimo per il secondo round televisivo contro Joe Biden, in vista del voto delle presidenziali atteso per il 3 novembre. Secondo diversi medici, tuttavia, il presidente degli Stati Uniti non starebbe affatto così bene come mostra, tanto che secondo il professor Bob Wachter, presidente del Dipartimento di Medicina dell'Università della California a San Francisco, come dichiarato a Business Insider avrebbe ancora una possibilità su cinque di morire a causa della COVID-19, l'infezione causata dal coronavirus.

Com'è possibile se Trump è stato dimesso dall'ospedale e afferma di sentirsi in perfetta forma? Le ragioni sono principalmente tre, secondo gli esperti: la mancata divulgazione di alcune informazioni cruciali sull'evoluzione della sua malattia, il trattamento a base di desametasone e il possibile decorso ondulante dell'infezione, che potrebbe aggredire di nuovo – e con forza – il suo organismo tra l'ottavo e il dodicesimo giorno dalla comparsa dei sintomi. Procediamo con ordine. Lunedì 5 ottobre è stato lo stesso medico curante del presidente – il dottor Sean Conley – a dichiarare che Trump non fosse fuori pericolo, benché il giorno successivo (e quelli seguenti) ha corretto il tiro sottolineando che stava “andando molto bene” e che non sperimentava più sintomi. Niente febbre e livelli di ossigeno nella norma, "solo un pizzico di pressione elevata". Nonostante ciò, alle domande sulle radiografie polmonari il dottor Conley non ha voluto rispondere, trincerandosi dietro la privacy sui pazienti. Com'è noto il virus può determinare una polmonite con versamento di liquido infiammatorio, che a sua volta fa diminuire i livelli di ossigeno nel sangue; alla desaturazione si risponde con somministrazione di ossigeno, un trattamento cui Trump è stato sottoposto due volte durante il ricovero (ma senza passare in terapia intensiva, come invece accadde a Boris Johnson).

Come dichiarato al New York Times dal professor Talmadge E. King Jr., medico specializzato in terapia intensiva polmonare e a capo della Scuola di Medicina dell'Università della California di San Francisco, sono state omesse troppe informazioni dai medici per capire esattamente come stia Trump. Sulla base delle dichiarazioni di Conley, gli esperti suppongono che Trump abbia sperimentato almeno un episodio di severa desaturazione di ossigeno. Conley ha affermato che una volta è sceso al 93 percento e che non è mai arrivato attorno ai “bassi 80”. Ciò, tuttavia, non significa che non abbia mai raggiunto gli alti 80, è considerando che a 88 è già considerato un segno di malattia grave, sulla base quanto di indicato dall'esperto al New York Times, il quadro clinico del presidente potrebbe essere stato molto più drammatico di quello che è trapelato dai media.

Non a caso Trump è stato trattato con desametasone, un farmaco steroideo che lo studio RECOVERY (Randomized Evaluation of COVid-19 thERapY) della prestigiosa Università di Oxford ha dimostrato essere in grado di ridurre il tasso di mortalità nei pazienti gravi. E proprio per questi ultimi viene raccomandata la prescrizione dall'Organizzazione Mondiale della Sanità, poiché è tutto fuorché scevro da controindicazioni. Come sottolineato a Business Insider dal professor Panagis Galiatsatos, medico polmonare presso il Johns Hopkins Bayview Medical Center, qualunque paziente che riceve steroidi si sente meglio, non solo perché questi farmaci abbattono i sintomi della malattia, ma anche perché determinano una sorta di euforia. Il vigore di Trump potrebbe essere legato proprio all'uso del farmaco, anche se la malattia sottostante potrebbe essere ancora severa. “Può farti sentire bene anche se la malattia è ancora piuttosto grave. Non cambia di molto il rischio”, ha specificato il professor Bob Wachter, sottolineando che Trump per peso ed età ha ancora una probabilità su cinque di morire a causa dell'infezione contro cui sta combattendo. Gli steroidi, l'antivirale remdesivir e gli altri farmaci utilizzati per trattare il presidente hanno l'obiettivo di contenere il sistema immunitario, una cui risposta sproporzionata responsabile della “tempesta di citochine” è potenzialmente fatale durante l'infezione. Questi trattamenti indeboliscono il sistema immunitario e ciò significa che l'organismo potrebbe combattere a lungo contro il virus.

A preoccupare alcuni esperti vi è proprio il decorso della COVID-19. In numerosi pazienti, infatti, pur sentendosi bene all'inizio, le condizioni possono precipitare dai 7 ai 12 giorni dopo la comparsa dei sintomi. Come sottolineato al Journal of the American Medical Association dalla professoressa Michelle Gong, specialista di terapia intensiva presso il Montefiore Medical Center, “i pazienti sembrano stare bene, poi dopo cinque-sette giorni iniziano a peggiorare e sviluppano insufficienza respiratoria”. L'ARDS o sindrome da distress respiratorio acuto – una delle complicazioni peggiori innescate dalla tempesta di citochine – secondo i CDC compare in media tra gli 8 e 12 giorni dopo l'insorgenza dei sintomi, mentre si finisce in terapia intensiva mediamente tra 10 e 12 giorni dopo la comparsa dei sintomi.

Il dottor Mangala Narasimhan, pneumologo e direttore dei servizi di terapia intensiva presso la Northwell Health di New York, ipotizza che Trump abbia un coinvolgimento polmonare, proprio alla luce dei farmaci con cui è stato trattato. La speranza naturalmente è che il presidente degli Stati Uniti si stia realmente riprendendo dall'infezione e che presto possa tornare al proprio lavoro, ma come specificato da diversi esperti, l'eccessivo ottimismo potrebbe essere principalmente legato alle ragioni della serrata campagna elettorale in cui è coinvolto. I prossimi giorni saranno decisivi per conoscere meglio le sue condizioni.

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