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Parmitano racconta la “passeggiata” interrotta: non vedevo e non sentivo nulla

Il racconto di quel 16 luglio è da brividi, tanto più che la lucidità con cui venne gestita l’emergenza non fece trasparire nulla allo spettatore. Eppure l’astronauta italiano era isolato: non sentiva e non era sentito, non vedeva e, soprattutto, aveva mezzo casco pieno d’acqua.
A cura di Redazione Scienze
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Sebbene addestrati per mesi e avvolti da una rassicurante tecnologia, gli astronauti sono continuamente sottoposti a pericoli che sulla Terra non è possibile immaginare. La fredda e controllata reazione all'incidente che coinvolse Luca Parmitano nella sua passeggiata nello Spazio lo scorso 16 luglio non tragga in inganna. A rivelare la tensione vissuta dall'astronauta italiano è il suo stesso blog, su cui il militare racconta come la sua EVA (Extra Vehicular Activity) si sia trasformata, da sogno, in incubo. Rivendendo il video la tensione non oltrepassa la tuta e allo spettatore non resta niente, se non la visione di un rientro ordinato, corretto, marziale. Eppure in quei pochi minuti – a circa 400 km di distanza dalla superficie terrestre – Luca Parmitano non ha più visto, non ha più sentito e, soprattutto, per alcuni istanti ha avvertito l'acqua arrivargli fino al naso.

Parmitano racconta le prime fasi della missione, con l'uscita sua e di Chris Cassidy, il veterano statunitense che lo aveva accompagnato già in occasione della prima passeggiata nello Spazio. In tutto l'EVA sarebbe dovuta durare sei o sette ore, ma dopo più di un'ora all'esterno della ISS il militare italiano avverte del liquido sulla sua nuca e allerta la base. Cassidy conferma la presenza, mentre l'acqua all'interno del casco continua ad aumentare. Poi l'ordine della Nasa: rientrate. Parmitano si avvia verso la stazione, Cassidy deve mettere in sicurezza l'attrezzatura e seguire il catanese. Nell'oscurità assoluta dello Spazio, con il casco che si riempie di acqua e l'impossibilità di liberarsene, il panico è dietro l'angolo. L'astronauta però tiene duro: l'acqua raggiunge le spugne della cuffia e l'udito avverte sempre meno quanto i colleghi gli chiedono. Ma il peggio deve ancora venire:

L’acqua ricopre inoltre quasi del tutto la parte frontale del mio visore, al quale aderisce riducendomi la vista. Mi accorgo che per poter superare una delle antenne nel mio percorso dovrò riposizionare il mio corpo verticalmente, anche per permettere al mio cavo di sicurezza di riavvolgersi regolarmente. E in quel momento, mentre mi posiziono a “testa in giù”, due cose succedono contemporaneamente: il sole tramonta, e la mia capacità di vedere, già ridotta dall’acqua, svanisce del tutto rendendo inutilizzabili i miei occhi; e, molto peggio, l’acqua ricopre il mio naso – una sensazione davvero sgradevole, peggiorata dai miei sforzi, inutili, di spostare l’acqua dal mio volto scuotendo la testa. La parte superiore del casco è ormai piena di acqua, e non so neanche se la prossima volta che respirerò dalla bocca riuscirò a riempirmi i polmoni di aria e non di liquido. A complicare il tutto, mi rendo conto che non sono neanche in grado di capire in che direzione andare per rientrare all’airlock: riesco a vedere solo per poche decine di centimetri intorno a me, e non riesco a individuare neanche le maniglie che utilizziamo per muoverci intorno alla ISS.

Il catanese sente appena i colleghi e loro non sentono lui: "sono solo", scrive sul suo blog, e diventa necessario "un piano d'azione". Una sorta di piano B per evitare di affogare a 400 km di altezza dal livello del mare:

So che se resto dove sono, Chris verrà a prelevarmi, ma quanto tempo ho a disposizione? Impossibile determinarlo. Poi mi ricordo del cavo di sicurezza, la cui molla di riavvolgimento ha una forza di circa 3lb che mi “tira” verso sinistra. Non è molto, ma è l’idea migliore che ho al momento: seguire quel cavo fino all’airlock. Mi impongo di restare calmo e con pazienza, cercando le maniglie al tatto, inizio a spostarmi, cercando contemporaneamente di pensare a come eliminare l’acqua se dovesse giungere fino alla bocca. L’unica idea che mi viene in mente è di aprire la valvola di sicurezza vicino all’orecchio sinistro: creando una depressurizzazione controllata, dovrebbe riuscire a svuotare un po’ dell’acqua, almeno finché questa, congelandosi istantaneamente per sublimazione, non dovesse bloccare il flusso. Ma creare un “buco” nella tuta spaziale è davvero l’ultima carta da giocarsi.

Poi la vista dell'airlock, l'ingresso al suo interno e il tempo per depressurizzare. E, infine, via il casco. La "ciurma" spaziale è tutta là, pronta ad accogliere il collega italiano e a dargli una mano. Forse chiamarle "passeggiate" non rende onore alla temerarietà degli attori e ai pericoli connessi ad una EVA. Parmitano, a sue spese, ne ha fatto esperienza:

Lo Spazio è una frontiera, dura e inospitale, in cui noi siamo ancora degli esploratori e non dei coloni. La bravura dei nostri ingegneri, e la tecnologia che abbiamo a disposizione, fa sembrare semplici cose che non lo sono, e a volte forse lo dimentichiamo. Meglio non dimenticare.

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