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Covid 19

L’idrossiclorochina aumenta il rischio di aritmie cardiache e morte nei pazienti con coronavirus

Il più grande studio di osservazione su pazienti contagiati dal coronavirus e sottoposti al trattamento con clorochina e idrossiclorochina (due antimalarici), ha fatto emergere che i due farmaci non solo non forniscono alcun beneficio clinico rispetto ai pazienti non trattati, ma aumentano anche il rischio di aritmie ventricolari e morte.
A cura di Andrea Centini
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L'idrossiclorochina e la clorochina, due dei farmaci più promettenti nel contrasto al coronavirus SARS-CoV-2, aumentano il rischio di complicazioni cardiache e morte nei pazienti contagiati dal patogeno emerso in Cina. È il risultato emerso dal più grande studio condotto sull'efficacia anti coronavirus dei principi attivi antimalarici, balzati agli onori della cronaca internazionale sia per la controversa sperimentazione condotta in Francia che per la “promozione” del Presidente americano Donald Trump, che aveva considerato l'idrossiclorochina – in associazione all'antibiotico azitromicina – un possibile “game changer” nella lotta alla COVID-19, l'infezione provocata dal nuovo coronavirus. Proprio in questi giorni il presidente degli Stati Uniti ha affermato di aver assunto il medicinale tutti i giorni per una settimana e mezza, pur non essendo stato approvato dalla Food and Drug Administration (FDA), l'ente americano che si occupa di regolamentare farmaci, prodotti alimentari e terapie sperimentali.

A determinare la potenziale pericolosità dei farmaci è stato un team di ricerca internazionale guidato da scienziati del Brigham and Women's Hospital Heart di Boston (Massachusetts), che hanno collaborato con i colleghi della Surgisphere Corporation, dello University Heart Center presso l'Ospedale Universitario di Zurigo (Svizzera) e del Dipartimento di Ingegneria Biomedica presso l'Università dello Utah. Gli scienziati, coordinati dal professor Mandeep R Mehra, membro del Vascular Center e docente alla prestigiosa Scuola di Medicina dell'Università di Harvard, sono giunti alle loro conclusioni dopo aver analizzato i dati di poco meno di centomila pazienti contagiati dal coronavirus, con un'età media di 53,8 anni e in prevalenza uomini (le donne erano il 46,3 percento del totale).

I 96.032 partecipanti, ricoverati in 671 ospedali sparsi per sei continenti, sono stati tutti ricoverati nei reparti COVID tra il 20 dicembre del 2019 e il 14 aprile del 2020. Fra essi, poco meno di 15mila sono stati coinvolti nella somministrazione compassionevole di farmaci per contrastare l'infezione: 1.868 hanno ricevuto dosi di clorochina; 3.783 hanno ricevuto clorochina con un antibiotico macrolide (composti chimici con proprietà battericide, come l'azitromicina); 3.016 hanno ricevuto l'idrossiclorochina e 6.221 hanno ricevuto idrossiclorochina in combinazione con un macrolide. Circa 81mila pazienti sono stati inclusi nel gruppo di controllo, senza cioè essere sottoposti al trattamento terapeutico. Tra tutti i pazienti coinvolti, 10.968 (l'11,1 percento del totale) sono morti in ospedale durante il ricovero.

Incrociando tutti i dati e tenendo in considerazione fattori di rischio cardiaco come età, sesso, vizio del fumo, indice di massa corporea, diabete, patologie polmonari e cardiovascolari preesistenti e altri parametri, non solo non hanno trovato alcun beneficio clinico nei pazienti trattati con i farmaci rispetto al gruppo di controllo, ma hanno rilevato una maggiore frequenza di alterazioni nel ritmo cardiaco – aritmia ventricolare de-novo, cioè emersa dopo la somministrazione – e un rischio di morte più elevato. A causa di complicazioni cardiache e mortalità più elevata, in precedenza ricercatori brasiliani dell'Università dello Stato di Amazonas e della Fundacao de Medicina Tropical Doutor Heitor Vieira Dourado hanno dovuto sospendere le iniezioni di idrossiclorochina nei pazienti contagiati dal coronavirus coinvolti in una ricerca.

Il professor Mehra e i colleghi sottolineano che il loro è stato solo uno studio osservazionale, dunque non randomizzato e controllato, pertanto i risultati dovranno essere confermati da indagini più approfondite; ciò nonostante essi gettano un'ombra sull'effettiva sicurezza ed efficacia del pubblicizzato trattamento terapeutico sperimentale. I dettagli della ricerca sono stati pubblicati sull'autorevole rivista scientifica The Lancet.

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