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Covid 19

Il coronavirus diventerà davvero meno mortale in futuro? Cosa dicono gli esperti

Molti scienziati si aspettano che in futuro il coronavirus SARS-CoV-2 diventerà endemico e molto meno letale di oggi, dando vita a un semplice raffreddore o comunque a una malattia molto lieve, ciò nonostante non ci sono ancora evidenze che confermano l’inevitabile riduzione della patogenicità. La comparsa della variante inglese potenzialmente più mortale, potrebbe essere l’eccezione che conferma la regola.
A cura di Andrea Centini
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Grazie all'analisi dei dati epidemiologici relativi alle epidemie di SARS e MERS, alla pandemia di COVID-19 in corso e a quattro comuni coronavirus umani, un team di ricerca americano dell'Università Emory di Atlanta e dell'Università Statale della Pennsylvania ha determinato che nei prossimi anni (o decenni) il coronavirus SARS-CoV-2 si trasformerà in un patogeno endemico, causando un semplice raffreddore. Questa evoluzione benigna sarebbe legata al fatto che in futuro la COVID-19 dovrebbe colpire essenzialmente i bambini, nei quali già oggi è decisamente meno aggressiva. Tale ottimistica previsione è in linea con ciò che prevedono molti virologi, poiché del resto, col passare del tempo, tendenzialmente “tutti i virus acquisiscono maggiore trasmissibilità e diventano meno patogeni”. Da un punto di vista evolutivo, spiegano gli esperti, ciò ha perfettamente senso. Il virus infatti non “vuole” uccidere il suo ospite, dato che ne ha bisogno per sopravvivere, e un'infezione non letale è ciò che lo permette. L'alta mortalità che si registra all'inizio sarebbe in pratica una sorta di “incidente evolutivo” che viene recuperato con la coesistenza, come sottolineato dagli scienziati Ed Feil e Christian Yates dell'Università di Bath.

Uno scenario di questo tipo è indubbiamente promettente, tenendo presente che in circa un anno la pandemia ha già ucciso 2,3 milioni di persone in tutto il mondo e circa 90mila soltanto in Italia, tuttavia, la recente comparsa della variante inglese B.1.1.7 o Variant of Concern 202012/01 – VOC-202012/01 potrebbe aver "sparigliato le carte in tavola". Secondo quanto annunciato dal premier britannico Boris Johnson, in riferimento alle analisi condotte dagli esperti del New and Emerging Respiratory Virus Threats Advisory Group (NEVRTAG), questa variante potrebbe avere una mortalità superiore del 30 percento rispetto a quella del ceppo “selvatico” di Wuhan. Com'è possibile, se il “destino” atteso del virus dovrebbe essere quello di un'aggressività ridotta per garantirsi la sopravvivenza nella nostra specie? Come specificato dai professori Ed Feil e Christian Yates in un articolo su The Conversation, la maggiore letalità di una variante potrebbe essere la tipica eccezione che conferma la regola, tuttavia ad oggi non ci sono evidenze scolpite nella pietra che la riduzione della virulenza sarà inevitabile.

I due scienziati hanno ricordato che la prima teoria sul declino della virulenza ha radici lontane, essendo stata gettata grazie al lavoro del medico e batteriologo statunitense Theobald Smith verso la fine del XIX secolo. Lo scienziato si accorse che alcune malattie infettive trasmesse ai bovini dalle zecche si attenuavano in modo significativo quando gli animali venivano esposti più volte ai patogeni. In parole semplici, quelli che si ammalavano la prima volta erano molto più gravi di quelli che invece avevano superato le infezioni precedenti. Secondo lo scienziato ciò era dovuto al fatto che col passare del tempo, coevolvendosi, ospite e patogeno avevano sviluppato una "relazione benigna". Una prima prova empirica della legge sul declino della virulenza arrivò dallo studio sulla diffusione del virus del mixoma nei conigli europei in Australia. A metà del XIX secolo i coloni li introdussero per cacciarli, ma questi animali ebbero effetti devastanti sulla flora e sulla fauna locali. Così, per eradicarli, si decise di diffondere un virus altamente letale e specifico per i conigli, il patogeno responsabile della mixomatosi. Negli anni '50 del secolo scorso, gli scienziati si accorsero della riduzione della letalità della malattia provocata nei conigli, balzata dal 99,5 percento al 90 percento. Secondo gli esperti questa era una prova della riduzione della letalità del patogeno teorizzata da Smith.

Negli anni '70, tuttavia, il matematico australiano Robert May e l'epidemiologo Roy Anderson svilupparono un modello chiamato “trade-off” legato alla trasmissibilità che andava contro la legge del declino della virulenza sviluppata dal medico americano. Secondo i due scienziati, come spiegato da Yates e Feil, un virus non riduce inevitabilmente la sua patogenicità, ma raggiunge un equilibrio di “virulenza ottimale” sulla base di vari fattori, “come la disponibilità di ospiti suscettibili e il periodo di tempo tra l'infezione e l'insorgenza dei sintomi”. Tenendo presente che possono passare diverse settimane tra il contagio e la morte a causa del coronavirus SARS-CoV-2, il patogeno ha molto tempo a disposizione per “replicarsi e diffondersi, molto prima che uccida il suo ospite attuale”. Alla luce di questo dettaglio, secondo il modello trade-off è attualmente impossibile essere certi del declino della virulenza del coronavirus. Come spiegato dai due professori dell'Università di Bath, i patogeni responsabili della tubercolosi e della gonorrea, ad esempio, molto probabilmente sono virulenti oggi tanto quanto lo erano in passato. La febbre dengue, d'altro canto, potrebbe addirittura essere diventata più aggressiva rispetto a decenni addietro, a causa dell'aumento della popolazione umana e della mobilità. E ci sono dubbi anche sul reale declino della mixomatosi nei conigli australiani. “Naturalmente, questi controesempi non sono prove che dimostrano che la virulenza del SARS-CoV-2 non diminuirà. Il declino della virulenza è certamente plausibile come uno dei tanti potenziali risultati con il modello del trade-off”, hanno sottolineato gli autori dello studio. Sarà dunque fondamentale studiare l'evoluzione delle varianti del SARS-CoV-2 per capire esattamente se oltre alla trasmissibilità possa effettivamente aumentare anche la mortalità, come suggerirebbero i primi studi condotti sulla variante inglese.

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