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Covid 19

I pazienti COVID in terapia intensiva hanno un rischio doppio di coma e delirio: “Ma si può evitare”

Analizzando le cartelle cliniche di migliaia di pazienti con COVID-19 ricoverati in terapia intensiva, un team di ricerca internazionale composto da ricercatori spagnoli e americani ha dimostrato che questi malati hanno un rischio doppio di sviluppare disfunzione cerebrale acuta (delirio o coma) rispetto ai pazienti ricoverati nello stesso reparto ma senza COVID. Secondo gli autori dello studio, questo rischio sarebbe in gran parte evitabile.
A cura di Andrea Centini
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Nella maggior parte dei casi l'infezione da coronavirus SARS-CoV-2 determina sintomi lievi o moderati (assimilabili a quelli di un'influenza) o è addirittura asintomatica, ciò nonostante in alcuni pazienti essa può evolvere nella forma grave e potenzialmente letale, come dimostrano i drammatici dati dei bollettini diramati ogni giorno. Ad oggi, sulla base della mappa interattiva dell'Università Johns Hopkins, le vittime ufficiali del coronavirus sono ben 1,9 milioni, delle quali quasi 78mila soltanto nel nostro Paese. I pazienti che affrontano la forma più severa della COVID-19 spesso finiscono nelle unità di terapia intensiva, dove in molti sperimentano disfunzioni cerebrali acute come delirio e coma. Secondo un nuovo studio la frequenza con cui i pazienti COVID sviluppano tali condizioni è doppia rispetto a quella rilevata per altri pazienti critici ricoverati nelle medesime unità, ma ciò sarebbe almeno in parte dovuto alle pressioni cui sono sottoposti i sistemi sanitari e alle restrizioni introdotte per l'emergenza, che avrebbero influenzato alcuni approcci terapeutici. In altri termini, una parte significativa di queste disfunzioni cerebrali acute sarebbe evitabile.

A sottolinearlo un team di ricerca internazionale guidato da scienziati del Medical Center dell'Università Vanderbilt di Nashville (Stati Uniti) e dell'Università di Valencia (Spagna), che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi del Dipartimento di Anestesiologia e Chirurgia d'Emergenza presso l'Ospedale Universitario Ramón y Cajal di Madrid, dell'Ospedale Universitario di Alava, del Dipartimento di Terapia Intensiva dell'Erasmus MC University Medical Center (Paesi Bassi) e di altri istituti. Tutti gli scienziati sono riuniti sotto l'egida del COVID-19 Intensive Care International Study Group, un consorzio di esperti nato proprio per studiare e migliorare l'approccio delle cure in terapia intensiva dei pazienti COVID. I ricercatori, coordinati dai professori Pratik P. Pandharipande, Brenda T. Pun e Rafael Badenes, sono giunti alle loro conclusioni dopo aver analizzato le cartelle cliniche di oltre 4mila pazienti con COVID-19 ricoverati in 69 unità di terapia intensiva di 14 Paesi, tra il 20 gennaio e il 28 aprile del 2020. Pun e colleghi hanno incluso nella propria indagine 2.088 pazienti, escludendo quelli in procinto di morire; chi aveva disturbi neurodegenerativi e malattie mentali pregresse; i ciechi; i sordi; chi aveva tentato il suicidio e chi era andato incontro a overdose da droghe. I pazienti inclusi avevano un'età media di 64 anni.

Dall'analisi statistica dei dati è emerso che circa l'82 percento dei pazienti COVID ricoverati in terapia intensiva mediamente stava in coma per 10 giorni , mentre il 55 percento delirava per 3 giorni. “La disfunzione cerebrale acuta (coma o delirio) è durata per una media di 12 giorni”, hanno scritto gli autori dello studio in un comunicato stampa. “Questo è il doppio di quello che si vede nei pazienti in terapia intensiva non COVID”, ha dichiarato la professoressa Pun, docente presso l'Università di Valencia. Sebbene gli scienziati ritengano che la forma severa della COVID-19 possa essere predisponente per la disfunzione cerebrale, ritengono anche che in questo caso abbiano influito in modo significativo altri fattori, “legati alle pressioni esercitate sull'assistenza sanitaria” a causa della pandemia. “Lo studio sembra mostrare un ritorno a pratiche di terapia intensiva datate, tra le quali sedazione profonda, uso diffuso di infusioni di benzodiazepine (la benzodiazepina è un depressivo del sistema nervoso), immobilizzazione e isolamento dalle famiglie”, si legge nel comunicato stampa. Nel trattamento di questi pazienti ci sarebbe un “apparente diffuso abbandono dei più recenti protocolli clinici che hanno dimostrato di aiutare a scongiurare la disfunzione cerebrale acuta che colpisce molti pazienti critici”.

Quasi il 90 percento dei pazienti coinvolti nello studio ha avuto bisogno di ventilazione meccanica invasiva, il 67 percento dei quali il giorno stesso in cui è stato trasferito nel reparto di rianimazione. I pazienti che ricevevano infusioni di sedativi a base di benzodiazepine, scrivono gli scienziati, avevano un rischio superiore del 59 percento di sviluppare il delirio, mentre i pazienti che ricevevano le visite dei parenti (anche virtualmente, attraverso un tablet) avevano un rischio del 30 percento inferiore. “È chiaro dalle nostre scoperte che molte unità di terapia intensiva sono tornate a pratiche di sedazione che non sono allineate con le linee guida delle migliori pratiche”, ha dichiarato la professoressa Pun. “Questi periodi prolungati di disfunzione cerebrale acuta sono in gran parte evitabili. Il nostro studio lancia un avvertimento: durante la seconda e terza ondata di COVID-19, le équipe di terapia intensiva devono soprattutto tornare a livelli più leggeri di sedazione per questi pazienti, operare frequenti risvegli e prove di respirazione, mobilizzazione e visite in sicurezza di persona o virtuale”, ha concluso il professor Pandharipande, docente di anestesiologia presso il Centro per malattie gravi, disfunzioni cerebrali e sopravvivenza del Vanderbilt University Medical Center. I dettagli della ricerca “Prevalence and risk factors for delirium in critically ill patients with COVID-19 (COVID-D): a multicentre cohort study” sono stati pubblicati sull'autorevole rivista scientifica The Lancet Respiratory Medicine.

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