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Covid 19

Gli anticorpi contro il coronavirus durano almeno 8 mesi, indipendentemente da età e gravità Covid

Un team di ricerca italiano guidato da scienziati dell’Ospedale San Raffaele e dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) ha determinato che gli anticorpi neutralizzanti contro il coronavirus SARS-CoV-2 persistono nei pazienti per almeno otto mesi, indipendentemente dall’età e dalla gravità della COVID-19. Chi non li sviluppa entro due settimane dai primi sintomi rischia di più la forma grave.
A cura di Andrea Centini
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La durata dello scudo immunitario innescato dall'infezione naturale da coronavirus SARS-CoV-2 è un'informazione particolarmente preziosa nella gestione della pandemia – basti pensare al famoso “pass verde” -, tuttavia ad oggi non è ancora disponibile un intervallo preciso e definito. Diversi studi hanno rilevato che tale protezione possa durare per diversi mesi; fra essi vi è anche un'approfondita ricerca italiana appena pubblicata, grazie alla quale è stato determinato che gli anticorpi neutralizzanti possono essere rilevati nel flusso sanguigno dei pazienti per almeno otto mesi. Tale persistenza non solo è indipendente dalla gravità della patologia, ma anche dall'età e dalla presenza di patologie pregresse.

Gli autori di questa scoperta hanno anche osservato che la riattivazione degli anticorpi contro altri coronavirus (come i quattro responsabili del comune raffreddore) innescata per reattività crociata dal patogeno pandemico non ostacola la formazione delle immunoglobuline specifiche per il SARS-CoV-2. In parole semplici, l'immunità non viene “smorzata” da infezioni pregresse dovute a coronavirus meno virulenti. Infine, i pazienti che non sviluppano gli anticorpi neutralizzanti entro 15 giorni dalla comparsa dei sintomi hanno una maggiore probabilità di sperimentare la forma grave della COVID-19, pertanto dovrebbero essere trattati precocemente con terapie ad hoc alla luce del rischio maggiore.

A determinare tutto questo è stato un team di ricerca guidato da scienziati dell'IRCCS Ospedale San Raffaele e dell'Istituto Superiore di Sanità (ISS), che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi dell'Istituto di Genetica Molecolare – Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) di Pavia e di altri istituti. Gli scienziati, coordinati dalla professoressa Gabriella Scarlatti, ricercatrice presso l'Unità di Evoluzione e Trasmissione Virale del nosocomio meneghino, sono giunti alle loro conclusioni sfruttando dei peculiari test per monitorare la presenza di anticorpi nel sangue dei pazienti. Le tecniche utilizzate sono figlie di altri test messi a punto dagli scienziati per studiare la risposta anticorpale legata al diabete di tipo 1 e ai vaccini contro il virus dell'HIV.

I ricercatori hanno coinvolto nell'indagine 162 pazienti della coorte "COVID-BioB" con un'età media di 63 anni, tutti contagiati dal coronavirus SARS-CoV-2 durante la prima ondata della pandemia e recatisi al pronto soccorso del San Raffaele in cerca di assistenza. Per il 67 percento si trattava di uomini, mentre poco più della metà aveva una comorbilità (altra patologia) al momento della positività al tampone molecolare. La più diffusa era l'ipertensione (44 percento) seguita dal diabete (24 percento), due tra le condizioni più associate alla mortalità per COVID-19. I pazienti presentavano sintomi da COVID-19 di varia entità, sebbene ben in 134 hanno necessitato del ricovero in ospedale. I loro campioni di sangue sono stati raccolti tra marzo e novembre 2020 e hanno permesso di monitorare a lungo le variazioni nella concentrazione degli anticorpi neutralizzanti (IgG).

Dalle indagini è emerso che il 79 percento dei pazienti produce immunoglobuline neutralizzanti entro le prime due settimane dalla comparsa dei sintomi. Chi non li produce, invece, ha un rischio maggiore di sperimentare la forma grave della COVID-19, indipendentemente dall'età o dalla presenza di altre patologie. I titoli degli anticorpi neutralizzanti diminuiscono progressivamente a 5-8 settimane dal contagio, tuttavia sono ancora rilevabili fino a otto mesi nella maggior parte dei pazienti guariti; anche in questo caso la persistenza non è influenzata dall'età o dalla gravità dell'infezione sperimentata. Solo tre pazienti coinvolti nello studio sono risultati negativi al test degli anticorpi otto mesi dopo la diagnosi di COVID-19.

“Quanto abbiamo scoperto ha delle implicazioni sia nella gestione clinica della malattia nel singolo paziente, sia nel contenimento della pandemia”, ha dichiarato la professoressa Scarlatti. “Secondo i nostri risultati, infatti, i pazienti incapaci di produrre anticorpi neutralizzanti entro la prima settimana dall’infezione andrebbero identificati e trattati precocemente, in quanto ad alto rischio di sviluppare forme gravi di malattia. Gli stessi risultati ci danno però anche due buone notizie: la prima è che la protezione immunitaria conferita dall’infezione persiste a lungo; la seconda è che la presenza di una pre-esistente memoria anticorpale per i coronavirus stagionali non costituisce un ostacolo alla produzione di anticorpi contro SARS-CoV-2. Il prossimo step è capire se queste risposte efficaci sono mantenute anche con la vaccinazione e soprattutto contro le nuove varianti circolanti, cosa che stiamo già studiando in collaborazione con i colleghi del ISS”. I dettagli della ricerca “Neutralizing antibody responses to SARS-CoV-2 in symptomatic COVID-19 is persistent and critical for survival” sono stati pubblicati sull'autorevole rivista scientifica Nature Communications.

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