Giornata Mondiale contro l’AIDS, il punto sul vaccino italiano Tat: risponde l’immunologa Ensoli
A circa 40 anni dalla prima Giornata Mondiale contro l'AIDS, che ogni anno si celebra il primo dicembre, nonostante l'impegno di ricercatori e istituzioni non si è ancora giunti a un vaccino in grado di debellare il virus dell'HIV. Tuttavia, alcuni laboratori stanno ottenendo risultati decisamente promettenti in questa lunga battaglia; fra essi vi è sicuramente quello guidato dall'immunologa Barbara Ensoli, direttrice del Centro Nazionale AIDS presso l'Istituto Superiore della Sanità (ISS). Il vaccino sperimentale messo a punto dalla studiosa, chiamato Tat, in un recente studio pubblicato sull'autorevole rivista scientifica Frontiers in Immunology ha dimostrato di essere particolarmente efficace contro il cosiddetto serbatoio di "virus latente", riuscendone ad abbatterne fino al 90 percento. Un vaccino così promettente potrebbe essere una sorta di Sacro Gral nel percorso per sconfiggere definitivamente la malattia, oltre che un traguardo in grado di salvare moltissime vite. Del resto, nonostante i numeri dei casi in costante calo dal 2005, come spiegatoci dalla dottoressa Barbara Suligoi dell'ISS, la malattia continua a mietere numerose vittime. Le nuove diagnosi sono state ben 1,7 milioni nel 2018, con 770 mila morti. Abbiamo intervistato la dottoressa Ensoli chiedendole di spiegarci a che punto è la sperimentazione sul vaccino e quando potrebbe essere reso disponibile per tutti i pazienti. Ecco le risposte della scienziata.
Dottoressa Ensoli, a che punto è la sperimentazione del vaccino Tat sviluppato da lei e dal suo team? I risultati pubblicati di recente su Frontiers in Immunology sono molto promettenti.
I risultati pubblicati su Frontiers in Immunology certamente ci incoraggiano a proseguire, fondi permettendo, la sperimentazione con il vaccino Tat. Ricordo che si tratta di un vaccino terapeutico che viene somministrato a persone già infette e in terapia antiretrovirale (ART) per aumentare gli effetti del trattamento farmacologico particolarmente in coloro che rispondono male alla terapia ART poiché, per esempio, la assumono in maniera irregolare o hanno iniziato il trattamento tardivamente. Inoltre, il vaccino Tat è in grado di ridurre drasticamente il virus latente (DNA provirale) presente in serbatoi virali non attaccabili dall’ART, e da cui il virus riparte ogni qualvolta la terapia venga interrotta, e di aumentare il rapporto dei linfociti T CD4+/CD8+. È da notare che i livelli molto bassi di DNA provirale ed un elevato rapporto dei linfociti T CD4+/CD8+ riscontrati nei pazienti vaccinati con Tat sono presenti anche in rari pazienti denominati “post-treatment controllers”, che sono in grado di controllare spontaneamente la replicazione virale dopo aver sospeso la terapia. Stiamo, pertanto, pianificando studi per verificare se la vaccinazione con Tat in pazienti che ricevono l’ART possa consentire di interrompere la terapia per periodi di tempo che dovranno essere determinati sotto attento controllo medico. Sono stati inoltre pianificati studi di fase III in Sudafrica per confermare l’efficacia del vaccino in pazienti che rispondono male alla terapia e in coloro appena diagnosticati positivi per HIV. In ambedue questi studi il vaccino sarà somministrato insieme e non in sostituzione dell’ART, in un classico approccio di intensificazione della terapia antiretrovirale.
Grazie al Tat, l'eradicazione della malattia sembra davvero essere alla portata della ricerca: qual è il suo “segreto” rispetto ai farmaci testati in precedenza?
Il segreto del nostro vaccino è il bersaglio scelto, cioè la proteina Tat, che non solo svolge un ruolo chiave nella replicazione di HIV (è il “motore” del virus) ma anche nella formazione e nel mantenimento dei “serbatoi di virus latente” e da cui il virus si riattiva ogni qualvolta venga interrotta la terapia. Nessun farmaco è stato sviluppato fino ad oggi per colpire questo bersaglio, che noi abbiamo invece scelto sulla base del suo ruolo nell’infezione e nello sviluppo di malattia. Un approccio cosiddetto “patogenetico” che va al cuore del problema.
Quanto tempo crede sarà necessario prima che possa essere reso disponibile per tutti i pazienti?
Siamo in fase avanzata. Abbiamo già condotto due studi di fase 2 nell’uomo in Italia e in Sudafrica, quindi su volontari infettati da sottotipi virali diversi, ottenendo gli stessi risultati. Purtroppo per il momento siamo bloccati per carenza di fondi. Qualora si rendessero disponibili, valutiamo che in 3-4 anni potremmo completare gli studi per confermare la sua efficacia, a cui potrà seguire la sua registrazione e commercializzazione.
Recentemente è stato scoperto un nuovo ceppo dell'HIV, a partire dall'analisi di vecchi campioni. Crede ne verranno scoperti altri, in futuro? Come cambia il vostro lavoro in presenza di nuovi ceppi?
In realtà si tratta di un nuovo sottotipo di HIV, denominato L, che, al momento, comprende diversi ceppi di HIV isolati da campioni di soli 3 pazienti in Congo e che, tuttavia, non sembrano essersi diffusi nella popolazione. Non si sa se l’infezione con questo sottotipo comporti una diversa progressione della malattia, o una diversa risposta alla terapia antiretrovirale per gli individui che ne sono infetti. L’HIV è un virus estremamente variabile e questo fatto, unito alla evoluzione delle tecniche diagnostiche, sempre più raffinate e rapide, e alla capacità di HIV di ricombinarsi tra più sottotipi differenti rende estremamente probabile la scoperta di nuovi sottotipi e forme ricombinanti di HIV in futuro. Ciò indica anche come sia necessaria una continua sorveglianza dei sottotipi e delle forme ricombinanti di HIV circolanti nel nostro Paese, in linea con quanto avviene in altri paesi europei ed extraeuropei. Per quanto riguarda l’impatto che questa scoperta potrebbe avere sull’efficacia del vaccino Tat, i nostri studi hanno dimostrato che la proteina Tat, al contrario di altre proteine di HIV, ha una parte molto “conservata” (molto simile) nei vari ceppi virali e, pertanto, gli individui vaccinati con la proteina Tat generano anticorpi in grado di legarsi al Tat di differenti sottotipi virali, come già dimostrato nel trial di fase II in Sudafrica. Pertanto, sulla base delle conoscenze attuali riteniamo che il vaccino Tat possa essere usato come vaccino “universale”, efficace contro i vari ceppi virali che circolano nei continenti.
C'è grande interesse anche attorno all'anticorpo UB-421 che è stato in grado di “bloccare” il virus dell'HIV per alcuni mesi, senza sviluppo della resistenza. Cosa ne pensa di questo trattamento sperimentale?
È un trattamento certamente promettente ma per capire appieno le sue potenzialità e la sua sicurezza dovrà essere sperimentato più a lungo su un numero più grande di pazienti (o, come diciamo nel campo, in studi di efficacia di fase III). In uno studio di dimensioni e di durata limitate (fase II), questo trattamento si è rivelato capace di bloccare la replicazione di HIV per 8-16 settimane in pazienti che avevano smesso di assumere la terapia antiretrovirale. Studi simili sono stati fatti in precedenza con altri anticorpi in grado di neutralizzare il virus (anticorpi neutralizzanti). Questi anticorpi, diretti contro la molecola di superficie del virus (detta Env), per qualche settimana hanno bloccato la replicazione virale, per poi dar luogo alla comparsa di forme virali resistenti. Infatti, la molecola virale Env è molto variabile, ed è noto che può dare origine con relativa facilità a forme mutanti resistenti agli anticorpi neutralizzanti. La peculiarità dell’anticorpo UB-421 è di essere diretto, invece, (semplificando) contro la molecola umana CD4, che funge da recettore per la molecola Env, consentendo l’entrata del virus nella cellula. Al contrario di Env, il CD4 è assai poco variabile, ed infatti non sono stati osservati virus resistenti al trattamento durante lo studio con UB-421. Tuttavia, in uno studio con un altro anticorpo anch’esso diretto contro il CD4, detto Ibalizumab, il virus è stato tenuto sotto controllo per ben 25 settimane in pazienti divenuti resistenti ai farmaci, ma poi in alcuni di essi sono comparse varianti resistenti all’anticorpo. Pertanto, benché l’uso dell’anticorpo UB-421 sia una strada certamente interessante da perseguire, solo studi con tempi di osservazione più lunghi su di un numero maggiore di pazienti appureranno se il blocco del recettore CD4 generi effetti collaterali nel lungo periodo e se il virus rimanga soppresso per periodi di tempo più prolungati, risultato che noi tutti, naturalmente, ci auguriamo.