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Covid 19

Covid rilevata nell’80% dei cervi: perché è una seria minaccia al futuro della pandemia

L’82,5% dei cervi dalla coda bianca testati per il coronavirus è risultato positivo. L’enorme circolazione della COVID-19 tra gli animali preoccupa gli esperti.
A cura di Andrea Centini
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Oltre l'80 percento dei cervi dalla coda bianca o cervi della Virginia (Odocoileus virginianus) dell'Iowa testati per il coronavirus SARS-CoV-2 è risultato positivo. È una percentuale semplicemente sconvolgente, che dimostra quanto il patogeno responsabile della pandemia di COVID-19 sia enormemente diffuso nelle popolazioni di questi animali, i cervidi più diffusi nel Nord America. Sono coinvolti sia gli esemplari selvatici che quelli allevati in cattività, alimentando ulteriormente la preoccupazione degli esperti. Era noto da tempo che i cervi fossero esposti a un rischio di contagio significativo, tuttavia una simile circolazione virale è una spiacevolissima sorpresa, rappresentando un potenziale grave rischio per la salute degli animali e dell'uomo.

A determinare che vi è un numero enorme di cervi dalla coda bianca infettati dal coronavirus SARS-CoV-2 è stato un team di ricerca americano guidato da scienziati degli Istituti di Scienze della Vita “Huck” dell'Università Statale della Pennsylvania, che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi del Wildlife Bureau – Dipartimento delle risorse naturali dell'Iowa, del College di Medicina Veterinaria dell'Università Statale dell'Iowa, dello Houston Methodist Research Institute – Houston Methodist Hospital e di altri centri di ricerca. Gli scienziati, coordinati dal professor Suresh V. Kuchipudi, docente presso il Laboratorio di diagnostica animale dell'ateneo di University Park, sono giunti alle loro conclusioni dopo aver testato la positività al patogeno pandemico in campioni di linfonodi retrofaringei (RPLN) prelevati da centinaia di esemplari. Nella prima fase dello studio hanno analizzato i linfonodi di 151 cervi selvatici e di 132 in cattività raccolti tra l'aprile del 2020 e il dicembre del 2020, rilevando la positività nel 33,2 percento di essi (94 su 283). Il risultato più sconvolgente è arrivato nella seconda fase dello studio, condotta tra il 23 novembre 2020 e il 10 gennaio 2021, nella quale sono risultati positivi al coronavirus SARS-CoV-2 ben 80 cervi su 97, ovvero l'82,5 percento del totale esaminato. L'RNA virale è stato rilevato attraverso la reazione a catena della polimerasi inversa (RT-PCR), la stessa approfondita analisi di laboratorio dei tamponi molecolari.

Il sequenziamento genomico dei campioni virali ha rilevato la presenza di 12 varianti del patogeno pandemico, di cui la B.1.2 è stata identificata in 51 esemplari (54,5 percento) e la B.1.311 in 19 (20 percento), rappresentando circa il 75 percento di tutti i campioni. In una precedente analisi condotta dagli scienziati dello U.S. Department of Agriculture’s Animal and Plant Health Inspection Service (USDA/APHIS) sui cervi selvatici di Pennsylvania, Illinois, Michigan e New York era stato rilevato che circa il 40 percento aveva anticorpi contro il coronavirus SARS-CoV-2. Esperimenti condotti in laboratorio hanno invece confermato che cerbiatti infettati possono trasmettere il virus ad altri cerbiatti e agli esemplari adulti, facendo diffondere l'infezione. Fortunatamente tutti gli animali testati erano in buone condizioni, dunque sembra che i cervi si contagino ma non si ammalino. Questa è sicuramente una buona notizia, sebbene una simile diffusione rappresenta comunque un problema da non sottovalutare.

I cervi, infatti, potrebbero trasformarsi in un serbatoio naturale per il virus, dove il patogeno può continuare a evolvere fino a sviluppare nuove mutazioni potenzialmente pericolose. Gli esperti ritengono che siano stati gli uomini infetti ad aver trasmesso il virus ai cervi e che questi ultimi se lo siano trasmesso fra di essi, sia in natura che in cattività, determinando la drammatica circolazione rilevata dallo studio. Sebbene ad oggi non vi sia alcuna conferma che i cervi infetti possano passare il virus all'uomo, non lo si può escludere a priori, pertanto se i ceppi mutati in questi animali fossero più pericolosi e in grado di ripassare all'uomo (attraverso il fenomeno dello spillback) ci troveremmo innanzi a un enorme problema nella lotta alla pandemia. Ma i cervi potrebbero passare il virus anche ad altri animali facendolo diffondere ovunque e dando vita a una panzoozia, caratterizzata da una circolazione virale incontrollata tra più specie serbatoio. Gli autori dello studio sottolineano che la scoperta della trasmissione “selvatica ed enzootica nei cervi ha importanti implicazioni per l'ecologia e la persistenza a lungo termine, nonché il potenziale di ricaduta su altri animali e ricaduta negli esseri umani”. “Questi risultati – concludono gli esperti nell'abstract dello studio – evidenziano l'urgente necessità di un approccio ‘One Health' robusto e proattivo per ottenere una migliore comprensione dell'ecologia e dell'evoluzione del SARS-CoV-2”. I dettagli della ricerca “Multiple spillovers and onward transmission of SARS-Cov-2 in free-living and captive White-tailed deer (Odocoileus virginianus)” sono stati caricati sul database BiorXiv, in attesa di revisione paritaria e pubblicazione su una rivista scientifica.

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