Cosa sappiamo sul nuovo ceppo “più contagioso” di coronavirus emerso in Gran Bretagna
Da quando il coronavirus SARS-CoV-2 ha iniziato a diffondersi nel mondo ha determinato una catastrofe sanitaria, sociale ed economica senza precedenti in epoca moderna, spingendo la ricerca a fare passi da gigante per trovare una soluzione nel più breve tempo possibile. In meno di un anno abbiamo già un vaccino approvato per l'uso di emergenza – il BNT162B2 di Pfizer -, e ci si augura che la campagna vaccinale a tappeto che entrerà nel vivo dal prossimo anno (e che coinvolgerà anche altre preparazioni) possa abbattere definitivamente il nemico, facendoci riconquistare la normalità pre-pandemica. Ma sullo sfondo serpeggia il rischio che il patogeno, replicandosi nella popolazione umana (e non solo), possa mutare in modo significativo, dando vita a nuovi ceppi potenzialmente resistenti ai vaccini, o magari più infettivi e aggressivi. Ad oggi delle migliaia di varianti originatesi non vi è alcuna prova concreta di tutto questo, tuttavia vene sono alcune “messe nel mirino” da ricercatori e istituzioni. L'ultima in ordine cronologico balzata agli onori della cronaca internazionale è la mutazione N501Y, che starebbe catalizzando la diffusione della COVID-19 (l'infezione scatenata dal coronavirus) nel Regno Unito, in particolar modo nell'Inghilterra sudorientale.
A lanciare l'allarme sull'impennata di casi legata a questa nuova variante è stato il segretario alla Salute britannico Matt Hancock, che in un intervento alla Camera dei Comuni ha affermato che, grazie alla capacità di sequenziamento genomico di "livello mondiale" del Regno Unito, è stata identificata una nuova variante "che potrebbe essere associata alla diffusione più rapida nel sud dell'Inghilterra". Sono stati infatti rilevati aumenti esponenziali dei contagi "in tutta Londra, Kent, parti dell'Essex e dell'Hertfordshire", ha aggiunto Hancock. Ad oggi, tuttavia, come specificato dagli esperti del COVID-19 Genomics UK (COG-UK) – un'organizzazione di esperti che sta catalogando, sequenziando e analizzando l'intero genoma dei campioni di coronavirus -, sono ancora in corso indagini per accertare che questa e altre mutazioni stiano “contribuendo o meno a una maggiore trasmissione”. “Al momento – hanno indicato un comunicato stampa – non ci sono prove che questa variante (o qualsiasi altra studiata fino ad oggi) abbia un impatto sulla gravità della malattia o che renderà i vaccini meno efficaci, sebbene entrambe le domande richiedano ulteriori studi ad hoc”. In parole semplici, nel Regno Unito è stata osservata la diffusione notevole di un nuovo ceppo rispetto agli altri, e sebbene si sospetti che esso possa essere più contagioso, non sappiamo se le cose stiano andando effettivamente in questo modo, così come non ci sono evidenze di una maggiore aggressività. Lo stesso Hancock lo ha affermato durante il suo intervento.
I virus mutano naturalmente replicandosi negli ospiti, sottolineano gli esperti di COG-UK, e le mutazioni si “accumulano alla velocità di circa una o due al mese nella filogenesi globale”. “Come risultato di questo processo in corso, molte migliaia di mutazioni sono già emerse nel genoma del SARS-CoV-2 da quando il virus è emerso nel 2019. Man mano che le mutazioni continuano a manifestarsi, si osservano sempre più nuove combinazioni”. La stragrande maggioranza di esse – spiegano gli esperti – non ha alcun effetto sulle caratteristiche del virus, e si ritiene che solo una piccolissima percentuale possa influenzare resistenza, contagiosità e aggressività. Il motivo per cui N501Y preoccupa gli esperti risiede nel fatto che la mutazione rilevata è a carico della proteina S o Spike del coronavirus, la glicoproteina a forma di “ombrellino” che costella la superficie del guscio (pericapside o peplos) del patogeno, dandogli quell'aspetto a corona quando osservato al microscopio elettronico. Questa proteina gioca un ruolo fondamentale nella malattia, dato che il virus la sfrutta come un grimaldello biologico per scardinare la parete cellulare delle cellule umane dopo essersi legata al recettore ACE-2. Una volta “scardinata” la porta d'ingresso immette l'RNA virale e il patogeno infetta la cellula, dando vita al processo di replicazione che è alla base dell'infezione. Poiché questo meccanismo è cruciale il virus, la maggior parte dei vaccini in sviluppo o approvati punta a colpire proprio la proteina S. In parole semplici, si spinge l'organismo a sviluppare immunità contro di essa, pertanto in caso di esposizione al patogeno gli anticorpi generati neutralizzano la proteina e impediscono al coronavirus di infettare le cellule umane. Bersaglio colpito e affondato, verrebbe da pensare, ma le mutazioni potrebbero cambiare le carte in tavola, e permettere al coronavirus di aggirare il nostro sistema di difesa. Ecco perché le mutazioni a carico della proteina S sono scrupolosamente vagliate dagli scienziati.
Come indicato, N501Y è solo l'ultima balzata agli onori della cronaca, ma ha già fatto molto parlare di sé la D614G, anch'essa considerata una potenziale responsabile della maggiore contagiosità del coronavirus. Anche in questo caso non vi è alcuna certezza, e l'allarmismo scaturito da messaggi istituzionali sulla nuova variante senza le opportune prove dell'evidenza scientifica ha fatto storcere il naso a diversi esperti. “È incredibilmente frustrante avere una dichiarazione del genere senza alcuna prova associata”, ha dichiarato a Business Insider la genetista Lucy van Dorp, che sta studiando a fondo proprio il genoma del coronavirus SARS-CoV-2. “È importante mantenere una prospettiva calma e razionale sul ceppo poiché si tratta di una normale evoluzione del virus e ci aspettiamo che nuove varianti vengano fuori nel corso del tempo”, ha invece dichiarato allo Science Media Centre il professor lan McNally, docente di genomica presso l'Università di Birmingham. “È troppo presto per essere preoccupati o meno da questa nuova variante”, ha chiosato l'esperto. Anche l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) si è affrettata a dichiarare che non ci sono prove che il ceppo mutato dalla N501Y si comporti in modo diverso dalle altre migliaia di ceppi circolanti, sottolineando – per voce dell'esperta Maria Van Kerkhove – che la variante è sotto la lente di ingrandimento degli esperti nell'ottica del monitoraggio delle mutazioni nei visoni. Questi animali sono al momento gli unici noti per aver ritrasmesso il virus all'uomo dopo essere stati contagiati, e in un caso hanno dato vita a un ceppo con una ridotta sensibilità agli anticorpi. Per questa ragione moltissimi visoni sono stati sterminati a scopo precauzionale negli allevamenti di tutto il mondo, soprattutto in Danimarca, dove è emersa la suddetta mutazione e dono sono stati uccisi 17 milioni di animali innocenti, già condannati a una vita d'inferno per farne pellicce.