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Coronavirus, l’Europa ha fatto “troppo poco e troppo tardi”: l’accusa di The Lancet

La prestigiosa rivista scientifica britannica The Lancet, punto di riferimento mondiale per quel che concerne la materia sanitaria, ha puntato il dito contro l’Europa sottolineando che probabilmente è stato fatto troppo poco e troppo tardi per arginare la diffusione del coronavirus. Ora è necessario intraprendere iniziative ancora più decise per contrastare l’emergenza.
A cura di Andrea Centini
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Inutile girarci troppo intorno: nonostante la pericolosità del nuovo coronavirus (SARS-CoV-2) dimostrata dalle severissime misure messe in atto dalla Cina per contenerlo, in Europa si è fatto “probabilmente troppo poco e troppo tardi” per arginarne la diffusione, col risultato che adesso ci troviamo focolai epidemici in preoccupante crescita, con l'Italia in primissima linea per numero di contagi e vittime. A puntare il dito contro il lassismo dei governi europei è stata la prestigiosa rivista scientifica The Lancet, una delle più autorevoli (se non la più autorevole) al mondo per quel che concerne l'ambito sanitario. Nell'editoriale, non firmato, si giunge alla conclusione che si doveva fare di più per evitare l'emergenza attuale e si deve fare di più per contenerla, un j'accuse che era già stato lanciato da Tedros Adhanom Ghebreyesus, il direttore generale dell'Organizzazione Mondiale della Sanità: “Siamo preoccupati dal fatto che una lunga lista di Paesi non lo abbiano preso abbastanza sul serio, o abbiano preso la decisione che non si può fare nulla. In alcuni Paesi il livello di impegno politico e le azioni atte a dimostrarlo non corrispondono al livello della minaccia che tutti stiamo affrontando”, aveva specificato il dirigente. L'OMS ha comunque plaudito alle rigide misure messe sul campo dal governo italiano dopo l'emersione dei focolai epidemici di Codogno e Vo' Euganeo, come la nascita delle prime “zone rosse”, ma che a causa della continua diffusione della COVID-19 (l'infezione scatenata dal virus) hanno reso necessaria la creazione di “zone arancioni” che abbracciano l'intera Lombardia e diverse altre provincie italiane del Settentrione.

Nel momento in cui stiamo scrivendo, sulla base della “mappa interattiva del contagio” messa a punto dall'università americana John Hopkins, si registrano oltre 110mila casi nel mondo e 3.826 morti. Benché la maggior parte di essi sia concentrata nella provincia dello Hubei, dove si trova la metropoli epicentro dell'epidemia Wuhan e dove si ritiene che il virus abbia fatto il salto di specie, in numerose province cinesi si iniziano a non registrare nuovi casi di contagio, proprio grazie alle misure draconiane previste da Pechino. The Lancet le ha definite “probabilmente lo sforzo di contenimento della malattia più ambizioso, agile e aggressivo della storia”. La Cina, spiegano gli autori dell'editoriale, con queste iniziative “sembra aver evitato un numero considerevole di casi e morti, sebbene ci siano stati gravi effetti sull'economia della nazione”.

In Europa, per contro, benché fossero chiari i rischi – sopratutto per un Paese come l'Italia, particolarmente ricettivo a una situazione simile, oltre che sfortunato -, ci stiamo trovando nel cuore di un'emergenza analoga a quella del Dragone prima che iniziassero ad avere effetto le misure di contenimento. Del resto, come spiegato dalla virologa Ilaria Capua, i virus non conoscono confini, e alcuni sono stati troppo ottimisti a pensare che la Cina avrebbe arginato il contagio, in un contesto cosmopolita come quello attuale. Senza comunque dimenticare il ritardo da parte di Pechino nell'intraprendere le rigide misure di contenimento poi risultate efficaci, tra voci silenziate (come quella del medico eroe Li Wenliang) e una iniziale sottovalutazione del pericolo.

In Europa al momento l'Italia risulta al primo posto per numero di contagi (7.375) e vittime (366), rispettivamente terza e seconda in termini assoluti, ma preoccupano anche i 1.209 casi in Francia (19 morti), i 1.040 in Germania (nessun morto), i 673 in Spagna e le altre centinaia nei Paesi Bassi, in Belgio, in Svezia, Norvegia e altri Paesi. La Germania ha anche ammesso di avere dei focolai epidemici paragonabili a quelli del Bel Paese. Secondo The Lancet, il successo della Cina nel contenere il coronavirus “si basa in gran parte su un forte sistema amministrativo che può mobilitarsi in tempi di minaccia, combinato con il pronto accordo del popolo cinese a obbedire a rigorose procedure di sanità pubblica”. “Sebbene ad altre nazioni manchi la stessa economia politica di comando e controllo cinese, ci sono importanti lezioni che i presidenti e i primi ministri possono imparare dall'esperienza cinese. I segnali sono che quelle lezioni non sono state apprese”, tuonano gli autori dell'editoriale.

Tra i “suggerimenti” di The Lancet a chi è ancora indietro, vi è la diffusione urgente agli operatori sanitari di “linee guida su come gestire i pazienti con COVID-19, sotto forma di seminari, didattica online, software per smartphone e formazione peer-to-peer. Dispositivi come quelli per la protezione individuale, respiratori, ossigeno e kit per i test diagnostici “devono essere resi disponibili e vanno rafforzate le catene di approvvigionamento”. Paesi come il nostro, spiegano gli autori dell'editoriale, devono “agire in modo più deciso”, prendere iniziative drastiche senza calcolare i danni sul breve termine all'economia, esattamente come ha fatto la Cina. Ma è fondamentale che le persone rispettino quanto riportato nei decreti di emergenza (DPCM), con senso civico e responsabilità. La "fuga" di numerose persone dal Nord Italia con l'uscita della bozza sul decreto che prevedeva la “chiusura” della Lombardia; gli abbandoni delle zone rosse per andare in località turistiche; le folle oceaniche nei luoghi di ritrovo della movida, mettono in luce una irresponsabilità di fondo che fa intendere quanto in molti non siano pronti a derogare momentaneamente ad alcune delle proprie libertà per il bene della comunità tutta. Negli ospedali lombardi i medici sono già costretti a fare dolorose ma necessarie scelte su chi salvare e chi no, e se il virus dovesse dilagare in tutto il Paese, queste decisioni potrebbero ricadere su ciascuno di noi. Perché ci sarà sempre qualcuno più giovane, in salute e con una migliore aspettativa di vita della nostra.

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