Come il virus dell’HIV può aver dato vita alla variante Omicron
La variante Omicron (B.1.1.529) del coronavirus SARS-CoV-2 identificata alla fine di novembre in Sudafrica preoccupa gli esperti soprattutto per due ragioni: l'estrema contagiosità, che si ritiene possa essere fino al 500 percento superiore rispetto a quella del virus “originale” di Wuhan, e la capacità di sfuggire alle difese immunitarie, sia quelle indotte da precedenti infezioni naturali che quelle legate ai vaccini (che resterebbero comunque protettivi dalla malattia grave e dalla morte, in particolar modo con la terza dose). Queste subdole caratteristiche sarebbero dovute alle oltre 30 mutazioni rilevate sulla proteina S o Spike, il “gancio” che il patogeno sfrutta per legarsi alle cellule umane e determinare l'infezione. Si tratta di un numero impressionante di modifiche genetiche, che non derivano da una delle altre varianti di preoccupazione che hanno guidato altre ondate epidemiche (Alfa, Beta e Delta), bensì sarebbero sorte nel cuore del patogeno che circa due anni fa ha iniziato a serpeggiare nel mondo. Dunque come ha fatto il coronavirus a mutare così tanto e a restare “silente” così a lungo, esplodendo all'improvviso nella comunità sudafricana? Secondo gli esperti la nascita della variante Omicron sarebbe intimamente connessa al virus dell'HIV, quello responsabile della sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS). Vediamo perché.
Innanzitutto ricordiamo che i virus mutano naturalmente durante il processo di replicazione nell'ospite. Le mutazioni che si generano sono “errori di copia” casuali che possono risultare vantaggiosi o svantaggiosi per il virus, ma che nella stragrande maggioranza dei casi sono del tutto irrilevanti e non determinano la nascita di varianti più contagiose, aggressive e/o capaci di fuga immunitaria. In un soggetto sano, inoltre, in genere il virus viene eliminato rapidamente e non viene dato il tempo di sviluppare tante e significative mutazioni. Il discorso cambia nei soggetti immunodepressi, nei quali la debole risposta immunitaria non riesce a neutralizzare completamente il virus, la cui infezione può cronicizzare e perdurare per mesi. Le particelle virali che sopravvivono al blando attacco immunitario continuano a mutare e, sottoposte alla selezione naturale, possono evolvere in forme più resistenti in grado di eludere ancor meglio le difese. È così che può nascere una variante “super mutata” come la Omicron, dopo aver covato per lungo tempo in un soggetto immunodepresso prima di essere reimmessa nella comunità. Che c'entra l'HIV in tutto questo? Il fatto che la variante Omicron sia sorta in Sudafrica non c'è da stupirsi; si tratta infatti di uno dei Paesi con la più elevata concentrazione di sieropositivi e, come suggerisce il nome stesso dell'AIDS, si tratta di una patologia che rende deficitario il sistema immunitario. Poiché inoltre in Sudafrica c'è solo il 7,5 percento dei vaccinati (chi è vaccinato e si contagia elimina più rapidamente il virus) e le poche somministrazioni sono state fatte sugli anziani, c'è una larghissima fetta di popolazione con HIV non immunizzata al SARS-CoV-2. Si tratta di un doppio problema; innanzitutto perché i sieropositivi hanno un rischio sensibilmente maggiore di sviluppare la COVID-19 grave, in secondo luogo perché sono predisposti a poter poter dar vita a nuove varianti come la Omicron.
Si stima che circa l'80 percento delle persone con HIV in Africa ha meno di 50 anni, inoltre nell'Africa subsahariana vi sono 8 milioni di persone con HIV non sottoposte a un trattamento adeguato contro l'HIV, come sottolineato dal Guardian. Chi non tiene a bada l'infezione con una terapia antiretrovirale è più esposto al contagio di altri patogeni – come appunto il coronavirus SARS-CoV-2 – e a innescare il meccanismo di selezione delle nuove varianti. Un caso clinico emblematico è descritto nello studio “SARS-CoV-2 evolved during advanced HIV disease immunosuppression has Beta-like escape of vaccine and Delta infection elicited immunity” condotto da scienziati dell'Africa Health Research Institute di Durban e della School of Laboratory Medicine and Medical Sciences dell'Università di KwaZulu-Natal; gli scienziati guidati dal virologo Alex Sigal hanno rilevato un ceppo super mutato del coronavirus SARS-CoV-2 in una donna sieropositiva di 36 anni. La paziente, che non era sottoposta a un trattamento adeguato contro l'HIV, ha avuto la COVID per ben 216 giorni. Ciò ha permesso al virus di accumulare 32 mutazioni, rendendolo molto simile alla variante Omicron. Per questa ragione gli scienziati sottolineano la fondamentale importanza di trattare adeguatamente tutti i pazienti con HIV con la terapia d'elezione; non solo per proteggerli dall'AIDS e da tutte le sue complicazioni, compresa la COVID-19 grave in caso di infezione, ma anche per evitare che nuove varianti super mutate possano continuare a proliferare e diffondersi nel mondo, prolungando la coda della pandemia.