Com’è fatta la variante inglese del coronavirus: le immagini delle sue mutazioni
La sfida della lotta al coronavirus Sars-Cov-2 sono le varianti mutate, in aumento insieme ai casi di Covid-19 a livello globale. In particolare, alcune preoccupano più di altre perché, da minoritarie, sono rapidamente diventate le predominanti nelle aree dove sono emerse. In cima alla lista, quella denominata B.1.1.7 e nota come variante inglese che, dal Sud-Est dell’Inghilterra, dove è stata segnalata per la prima volta, si è rapidamente diffusa in tutta la Gran Bretagna e, si sospetta, in almeno 60 Paesi nel mondo.
La variante inglese B.1.1.7
Da quanto emerso finora, questa variante preoccupa perché sembra trasmettersi più facilmente rispetto alle precedenti versioni del virus. Un aspetto che ha spaventato i leader politici, che hanno chiuso i confini e imposto restrizioni di viaggio nel tentativo di frenare la sua diffusione. Secondo i Centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie, la variante B.1.1.7 potrebbe peggiorare la pandemia, anche se le ricerche finora svolte rassicurano sul fatto che la risposta immunitaria indotta dall’infezione (e molto probabilmente dalla vaccinazione) sia efficace anche contro questa versione mutata. D’altra parte, è emerso che alcune mutazioni permettono al virus di entrare con più facilità nelle cellule umane, suggerendo una maggiore contagiosità, ovvero migliorando la capacità del patogeno di trasmettersi da una persona all’altra. Ci sono inoltre prove che indicano che le persone contagiate dalla variante B.1.1.7 abbiano una carica virale più elevata, proprio perché il virus infetta le cellule più facilmente. La relazione è dunque semplice: più cellule infettate, maggiore è la quantità di virus presente nell’organismo.
Le otto mutazioni della proteina Spike
Effetti, come detto, delle mutazioni che si sono accumulate nel genoma del virus, il filamento di RNA che contiene le istruzioni necessarie ad assemblare le proteine (fino a 29 tipi diversi in Sars-Cov-2) e permettere al patogeno di moltiplicarsi e diffondersi. Questo perché, man mano che i coronavirus si replicano, commettono dei piccoli errori di copia, noti appunto come mutazioni, che in alcuni casi influiscono sulla struttura delle proteine, modificando o eliminando uno o più amminoacidi. Il processo di selezione naturale fa sì che le mutazioni neutre o vantaggiose vengano trasmesse di generazione in generazione, con quelle dannose che hanno invece maggiori probabilità di estinguersi.
In particolare, la variante inglese presenta una combinazione unica di mutazioni, in totale diciassette, che modificano o eliminano alcuni amminoacidi nelle proteine virali. Di queste, otto interessano la proteina Spike che il virus utilizza per legare le cellule e penetrare al loro interno. Ciascuna proteina, associata come trimero ad altre due, è generalmente formata da 1.273 amminoacidi, come mostrato nella figura qui sotto.
In questa sequenza amminoacidica, le proteine Spike della variante B.1.1.7 presentano due delezioni e sei sostituzioni: le delezioni HV 69-70 e Y144, e le sostituzioni N501Y, A570D, P681H, T716I, S982A e D118H, come schematizzato nella seguente figura.
La mutazione N501Y
Tra queste, la più rilevante sembra essere la mutazione N501Y che interessa un residuo chiave nel dominio di legame al recettore (RBD), cioè il sito della proteina Spike che entra in contatto con l’enzima di conversione dell’angiotensina-2 (ACE2) espresso sulle cellule umane, la via di ingresso del virus al loro interno. Nel dettaglio, nella variante B.1.1.7 l’amminoacido asparagina (N) in posizione 501 è sostituito da una tirosina (Y).
Poiché le proteine Spike sono dei trimeri, la mutazione è presente in tre punti della proteina.
La mutazione N501Y sembra migliorare l’affinità del sito di legame al recettore, consentendo un adattamento più stretto e aumentando la possibilità che l’infezione vada a buon fine.
I ricercatori ritengono che la mutazione N501Y si sia evoluta indipendentemente in diverse varianti di Sars-Cov-2. Oltre al lignaggio B.1.1.7, è infatti stata identificata in varianti emerse in Australia, Brasile, Danimarca, Giappone, Paesi Bassi, Sud Africa, Galles, Illinois, Louisiana, Ohio e Texas.
Come detto, oltre a N501Y, la variante inglese presenta altre sette mutazioni a livello della proteina Spike che potrebbero fornire altri vantaggi al virus, oppure non avere alcun effetto, essendo semplicemente trasmesse di generazione in generazione.
La delezione H69-70
Tra queste, la misteriosa delezione HV 69-70 che elimina sei nucleotidi nel gene S che codifica per la proteina Spike e che si traduce nella perdita di due amminoacidi in posizione 69 e 70, rispettivamente istidina (H) e valina (V). Uno studio pubblicato in pre-print su BioRxiv suggerisce che questa delezione consentirebbe al coronavirus di infettare le cellule con maggior successo: questo perché è possibile che modifichi la struttura della proteina Spike in modo da rendere più difficile il riconoscimento da parte degli anticorpi.
Gli studiosi definiscono questa porzione proteica come una regione di delezione ricorrente, poiché questa stessa mutazione è presente anche nella variante che ha infettato milioni di visoni in Danimarca e in altri Paesi.
La delezione Y144/145
Un’altra regione di delezione ricorrente riguarda le varianti di coronavirus che mancano del 144° e 145° amminoacido, ovvero due tirosine (Y) che normalmente si trovano in queste due posizioni.
Come la delezione HV 69-70, anche la Y144/145 si verifica nella regione più prossima all’N-terminale della proteina Spike e potrebbe rendere più difficile il riconoscimento da parte degli anticorpi neutralizzanti.
La mutazione P681H
Si tratta di una mutazione che sostituisce una prolina (P) con una istidina (H) in posizione 681, lungo lo stelo della proteina Spike.
Quando le proteine Spike vengono assemblate, non sono ancora pronte a legare le cellule umane e un enzima cellulare opera un taglio nella sezione dello stelo. Questa mutazione potrebbe rendere più facile per l’enzima raggiungere il sito di taglio.
Altre mutazioni rilevanti
Orf8 / Q27stop
Orf8 è una piccola proteina la cui funzione non è ancora stata chiarita. I ricercatori hanno provato ad eliminarla, scoprendo che il coronavirus può ancora diffondersi. Ciò ha suggerito che non sia essenziale per la replicazione, anche se questa mutazione potrebbe comunque fornire un vantaggio competitivo al virus mutato.
Generalmente formata da 121 amminoacidi, nella variante B.1.1.7 la proteina Orf8 presenta una mutazione che cambia il 27° amminoacido da glutamina (Q) a un segnale di stop generico.
Ciò comporta che, quando all’interno della cellula infettata dalla variante B.1.1.7 viene sintetizza la proteina Orf8, la sintesi si fermi a questa mutazione, lasciando un moncone lungo solo 26 amminoacidi. I ricercatori presumono che questo moncone non possa funzionare, anche se è possibile che la perdita di questa proteina vada a vantaggio di altre mutazioni, come N501Y, compensando la sua mancanza.
Dopo il codone di stop, in Orf8 sono presenti altre due mutazioni, due sostituzioni che cambiano arginina (R) in isoleucina (I) in posizione 52 e tirosina (Y) in cisteina (C) in posizione 73. Essendo però a valle del segnale di stop, queste due mutazioni potrebbero non avere alcun effetto.
La mutazione D614G
Discorso a parte, infine, sulla mutazione D614G, una delle prime a sollevare preoccupazioni tra gli scienziati. Emersa in Cina all’inizio della pandemia, potrebbe aver aiutato il virus a diffondersi più facilmente. In molti Paesi, i ceppi di Sars-Cov-2 con questa mutazione sono diventati i predominanti e da uno di questi discende la variante B.1.1.7