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Covid 19

Casco italiano abbatte del 40% il rischio di intubazione nei pazienti Covid

Ricercatori italiani hanno dimostrato che i pazienti con insufficienza respiratoria (da moderata a grave) con COVID-19 trattati con un “casco” per fornire ossigeno ad alta pressione hanno il 40% delle probabilità in meno di essere intubati rispetto a quelli trattati con ossigenazione nasale ad alti flussi, il metodo “gold standard” per tale trattamento.
A cura di Andrea Centini
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Un casco respiratorio, il "CaStar". Credit: StarMed/Intersurgical.com
Un casco respiratorio, il "CaStar". Credit: StarMed/Intersurgical.com
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Il coronavirus SARS-CoV-2 è un patogeno respiratorio, e tra le principali complicazioni che può determinare l'infezione (chiamata COVID-19) vi è l'insufficienza respiratoria, innescata dalla polmonite – che può essere di tipo bilaterale interstiziale – e/o dalla sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS), dovuta all'infiltrazione di fluidi infiammatori nei polmoni. L'ARDS è una complicazione potenzialmente fatale che può essere innescata dalla cosiddetta “tempesta di citochine”, una risposta immunitaria esagerata all'invasione virale. Quando la COVID-19 fa crollare i livelli di ossigeno del sangue (ipossiemia) determinando l'insufficienza respiratoria, i medici normalmente ricorrono all'ossigenazione nasale ad alto flusso non invasiva, ma nei casi più gravi, per i quali tale approccio non è sufficiente, è necessario procedere con l'intubazione, una procedura invasiva che comporta l'introduzione di una lunga struttura nella trachea del paziente per pompare ossigeno nei polmoni. Questa forma di ventilazione meccanica è praticamente l'ultimo baluardo per provare a salvare la vita. Ma grazie a un tipo di “casco” prodotto in Italia, utilizzato al posto dell'ossigenazione nasale ad alto flusso, è possibile abbattere del 40 percento le probabilità di dover ricorrere all'intubazione nei pazienti che presentano insufficienza respiratoria moderata e grave.

A determinarlo un team di ricerca tutto italiano guidato da scienziati del Columbus Covid2 Hospital – Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli Irccs di Roma, che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi dell'Istituto di Anestesiologia e Rianimazione dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma; del Dipartimento di Morfologia, Chirurgia e Medicina Sperimentale – Azienda Ospedaliera-Universitaria Arcispedale Sant'Anna dell'Università di Ferrara; del Reparto di Anestesia e Terapia Intensiva dell'Ospedale Infermi di Rimini, del Policlinico di Sant'Orsola di Bologna; dell'Università Gabriele d'Annunzio di Chieti-Pescara; dell'Ospedale SS Annunziata di Chieti e dell'European School of Obstetric Anesthesia di Roma. Gli scienziati, coordinati dal professori Domenico Luca Grieco e Massimo Antonelli, entrambi specialisti in Rianimazione del Gemelli, hanno determinato l'efficacia preventiva del casco italiano analizzando i casi di 109 pazienti Covid con insufficienza respiratoria (da moderata a grave) in uno studio clinico randomizzato multicentrico, condotto in quattro unità di terapia intensiva (ICU) italiane tra ottobre e dicembre 2020 (con follow-up finale datato 11 febbraio 2021).

I ricercatori hanno messo a confronto gli esiti clinici dei pazienti trattati con l'ossigenazione nasale ad alto flusso (il “gold standard” del trattamento) con quelli dei pazienti supportati dal casco, progettato per assicurare ventilazione continua e non invasiva ad alta pressione. Incrociando i dati, è stato osservato che il tasso di intubazione endotracheale risultava significativamente ridotto nel gruppo trattato col casco rispetto a quello con ossigeno nasale ad alto flusso. La riduzione del rischio è risultata essere del 40 percento (30 percento contro 51 percento). “Il casco è un approccio tutto italiano. Il suo uso non è frequente all’estero – ha dichiarato il professor Grieco – mentre l’ossigenoterapia ad alti flussi è stata finora considerata il gold standard per questi pazienti (come indicato dalle linee guida per i pazienti con ipossiemia grave del 2020). Il ‘casco’ (o helmet) è stato utilizzato tantissimo durante questa pandemia, ma prevalentemente in Italia e il grande pregio di questo studio è che rappresenta la prima documentazione di efficacia del ‘casco’ rispetto all’ossigenoterapia ad alti flussi, che è uno strumento molto semplice da utilizzare ed è diffuso in tutte le terapie intensive del mondo”. “Il casco – ha aggiunto lo scienziato – è un modo diverso di aiutare i pazienti, perché consente di erogare pressioni molto alte che permettono di ‘riaprire’ il polmone colpito dal processo infiammatorio e riducono la fatica respiratoria di questi pazienti”.

Nonostante i benefici legati alla riduzione del rischio di intubazione, i ricercatori italiani non hanno tuttavia osservato differenze significative nel numero di giorni senza supporto respiratorio (entro 28 giorni) tra i due gruppi di pazienti, pertanto si dovrà ancora indagare a fondo sull'impatto del casco. Il professor Grieco sottolinea inoltre che i pazienti trattati con questo dispositivo vanno costantemente monitorati da personale altamente specializzato, che deve essere prontissimo a procedere con l'intubazione in caso di necessità (la mortalità in queste circostanze è elevata).

Molti dei caschi utilizzati nello studio sono stati generosamente donati da cinque imprenditori italiani (Flavio Cattaneo, Luca Cordero di Montezemolo, Diego Della Valle, Isabella Seragnoli e Alberto Vacchi) tramite l'associazione “Aiutiamoci”, che ne ha acquistati e distribuiti a centinaia in diverse Regioni. I dettagli dello studio “Effect of Helmet Noninvasive Ventilation vs High-Flow Nasal Oxygen on Days Free of Respiratory Support in Patients With COVID-19 and Moderate to Severe Hypoxemic Respiratory Failure – The HENIVOT Randomized Clinical Trial” messo a punto grazie al supporto della SIAARTI (Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva, sono stati pubblicati sull'autorevole rivista scientifica JAMA.

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